La durata è quella di un rullo cinematografico di circa quindici minuti, che impone il proprio tempo al «racconto» in un cortocircuito tra durata della vita e quella del cinema. E il tempo, il suo scorrere a velocità relative, è proprio l’argomento di Vieille femme a l’aiguille di Elodie Ferré, il film vincitore del premio al miglior cortometraggio a Frontdoc 2017, il Festival internazionale del cinema di Frontiera che si è tenuto ad Aosta dal sei all’undici novembre.

Nel corto, un unico piano sequenza da un’inquadratura fissa, un’anziana signora siede di fronte alla finestra e discute con la giovane regista – che resta dietro la macchina da presa – proprio del passare ineluttabile del tempo, e dell’incombere quindi della morte, in base a un «copione» stabilito in anticipo su cui la protagonista è chiamata a esprimersi. Senza però ricevere domande o indicazioni da chi filma, che obbliga in un certo senso l’anziana signora a improvvisare, tornare su quanto già detto e nella ripetizione trovare un’autenticità che sfuggiva alle parole che si era preparata.

«Non puoi girare quando uno va fuori tema», dice la signora alla regista, chiedendole di tagliare le parti in cui il discorso è meno coerente. Ma il senso di Vieille femme a l’aiguille è racchiuso proprio nell’impossibilità di sfuggire all’errore e al protendersi in avanti del tempo. Come per la bobina cinematografica – che a differenza di una scena in digitale non si può tagliare con altrettanta libertà: non consente ellissi, detour, né passi all’indietro.

Un lungo percorso a ritroso è invece al centro di Manic di Kalina Bertin, il documentario lungometraggio a cui va la menzione speciale della giuria, mentre il premio al miglior film è stato assegnato a Taste of Cement di Ziad Kalthoum, documentario ambientato fra i migranti siriani in fuga dalla guerra che lavorano alla costruzione di un grattacielo di Beirut, e di cui avevamo già scritto in occasione della sua presentazione lo scorso aprile a Visions du Réel, dove pure aveva vinto il primo premio.

Per la regista canadese Kalina Bertin, Manic rappresenta invece un viaggio nella sua storia familiare e una ricerca sull’origine dei problemi mentali – il disordine bipolare – che ha colpito sia suo fratello Francois Sean che la sorella Felicia.  Mentre allo spettatore  offre soprattutto un percorso di avvicinamento e di scoperta  a partire da quanto di questa famiglia è già «pubblico»: un freddo fatto di cronaca, e cioè l’omicidio nel 2008 di George Dubie per mano di Margaret Crane.

Ma dietro questo assassinio c’è tutta la storia di Dubie – un uomo canadese per anni a capo di un culto religioso incentrato su se stesso – e delle sue molteplici identità, nonché dei figli ( tra i quali la regista) compresi quelli che da lui hanno ereditato il disordine bipolare. E tornando indietro nel tempo su questa complessa storia familiare – di cui non interessa l’aspetto cronachistico o sensazionale, ma quello più privato – incombe anche l’ombra del padre di Dubie, reduce della guerra di Corea e anche lui afflitto da quello che all’epoca veniva etichettato come disturbo maniaco depressivo.

Alternando filmati in Super8 della sua infanzia, girati proprio dal padre, a dialoghi con i fratelli anche quando sono in preda alla psicosi, Kalina Bertin porta sullo schermo una visione prismatica della malattia mentale in una ricerca che non può che fermarsi davanti al mistero che ancora oggi essa rappresenta. Ma Manic è anche un tentativo di avvicinamento – e di sommaria riconciliazione – con l’altrettanto misteriosa figura di un padre assente, lontano, indecifrabile per i figli che ne hanno ereditato il dolore.