Per oltre un decennio, da quando la crisi finanziaria importata dagli Usa colpì i paesi europei, governanti e banchieri aspettavano che i prezzi di molti beni di consumo tornassero a salire, dopo la caduta determinata dalla crisi della domanda da parte di imprese e consumatori. Più volte la Bce, la Commissione Europea, ed anche la Fed, invocavano un aumento dell’inflazione al 2%, cifra ideale secondo gli economisti mainstream per sostenere la crescita senza perdere il controllo dell’aumento dei prezzi.

COME SAPPIAMO per combattere la recessione che batteva alle porte le banche centrali di Usa, Ue, Giappone e Gran Bretagna, hanno immesso nell’economia un fiume di denaro, con una velocità mai vista nella storia della moneta. Con questa manovra finanziaria, il cosiddetto “Q. E” (Quantitative Easing), le Banche Centrali hanno comprato una enorme quantità di titoli di Stato, arrivando a possedere oggi il 50 per cento del debito pubblico in Giappone, il 40 per cento nella Ue, e intorno al 30 per cento in Gran Bretagna e Usa. Se si pensa che al 2010 la Bce possedeva solo il 2 per cento del Debito Pubblico dei paesi membri si può capire il salto quantitativo/qualitativo che si è registrato: un intervento massiccio dell’operatore pubblico per sostenere l’economia che di fatto contraddice l’ideologia neoliberista imperante che affida alle dinamiche del mercato la via d’uscita dalla recessione. Smentita anche la teoria monetarista che sostiene che c’è un nesso forte tra la massa di moneta in circolazione e il livello generale dei prezzi ( la famosa, per gli addetti ai lavori, equazione di Fisher M V = P T). In effetti, pochi si sono domandati seriamente che cosa davvero bloccasse una fiammata inflattiva, come fosse possibile che stampare moneta a go go non facesse aumentare i prezzi.

DUE SONO LE RAGIONI principali per cui i prezzi sono rimasti stabili in questo ultimo decennio, malgrado ogni mese le Banche Centrali occidentali stampassero decine di migliaia di dollari, euro, sterline, yen (ancora nel 2021 la Fed immette ogni mese 80 miliardi di dollari nell’economia Usa). La prima è dovuta alla globalizzazione dei mercati ed al decentramento produttivo per cui i beni di consumo prodotti nel Sud del Mondo, nei paesi dell’est e in Cina, facevano una concorrenza al ribasso rispetto ai prezzi dei beni prodotti in Occidente. La seconda ragione è legata al fatto, già chiaro nella teoria keynesiana, che questa enorme valanga di denaro è finita in gran parte nel circuito finanziario, è servita a salvare le banche e a foraggiare le Borse dopo il crollo del 2008 e 2011, ad incrementare la speculazione finanziaria.

Oggi la situazione è profondamente cambiata. Un primo colpo l’ha dato la pandemia che ha messo in crisi la globalizzazione riducendo gli scambi e la mobilità di merci e persone. Un secondo colpo continuano a darlo le misure protezionistiche ed un nuovo clima da guerra fredda che si gioca proprio sul mercato di beni fondamentali (a partire dal gas per finire con le materie prime necessarie per l’industria elettronica, batterie, ecc.). Infine, c’è da dire che l’abnorme espansione del Debito Pubblico, soprattutto nei paesi occidentali, non può durare a lungo. Il rapporto debito/Pil è diventato in molti paesi, Italia in prima fila, un peso insostenibile nel medio periodo per cui è molto probabile che si fermerà l’acquisto dei titoli di Stato da parte delle Banche Centrali, e quindi si ridurrà la quantità del denaro in circolazione. Ne consegue che da una parte la crescita economica rallenterà, mentre cresceranno i prezzi per le ragioni soprariportate. In breve, si profila una situazione di stagflazione che nel nostro paese potrebbe avere conseguenze imprevedibili.

L’INFLAZIONE avrebbe, da una parte, il vantaggio di ridurre il rapporto debito/Pil, dall’altra colpirebbe i lavoratori a reddito fisso. Uno scenario simile a quello già visto tra il 1972 e il 1985, quando l’inflazione venne fermata con l’abolizione della scala mobile, riducendo il salario reale a vantaggio del profitto e delle rendite. Se questo si verificherà allora la battaglia politica per un fisco più equo, più volte richiamata su questo giornale da Alfonso Gianni, diventerà fondamentale, direi prioritaria, se non vogliamo che il processo di impoverimento di ceti medi e popolari vada ancora avanti.