Dopo il «taglio» dei parlamentari, la maggioranza ha sottoscritto un documento politico in cui, tra l’altro, si indica la scadenza di dicembre come termine per avviare una riforma elettorale condivisa. C’è da dubitare che questa data possa essere rispettata.

È probabile che le cose vadano per le lunghe; e tuttavia, si potrebbe utilmente utilizzare questo tempo per cercare di fare qualche passo avanti nella discussione, sgombrando il terreno da approssimazioni, luoghi comuni e veri e propri strafalcioni che infestano il dibattito sulla questione elettorale, contribuendo non poco al moto di fastidio con cui oramai l’opinione pubblica segue questi problemi. Ad esempio, cominciando col dire che parlare di «proporzionale» o di «maggioritario», senza altre specificazioni, non vuol dire letteralmente nulla.

PARTIAMO da un assunto: spesso in modo implicito, chi propone una particolare riforma elettorale presuppone una propria idea del futuro assetto del sistema politico, un’idea che egli giudica preferibile e possibile. Non entrano in gioco solo le convenienze immediate, di corto respiro (o meglio, quelli che pensano solo a queste, molto spesso si ritrovano a fare i conti con gli effetti perversi o imprevisti di riforme che si presumeva essere ritagliate sulla propria misura): contano gli scenari di medio-lungo periodo che si pensa di dover favorire, e il ruolo che si pensa di poter giocare all’interno di essi. I sistemi elettorali, è bene ribadirlo, non determinano di per sé la forma di un sistema di partiti, ma possono indubbiamente orientarlo in un senso o nell’altro, e contengono molti incentivi e vincoli sulle strategie che gli attori politici possono immaginare. E dunque, la domanda di oggi è la seguente: di cosa ha bisogno la democrazia italiana? E i riformatori del campo democratico, sulla base di quali idee si muovono?

NELLE ULTIME settimane, dentro il Pd, stanno rinascendo incomprensibili nostalgie per il «maggioritario». Ma cosa vuol dire, concretamente? Si pensa che sia possibile provare ancora una volta a forzare la situazione per creare un qualche assetto bipolare? Si ipotizza che lo scenario futuro sia quello di un «nuovo» polo Pd-sinistra-M5S, da contrapporre alla destra? È bene essere espliciti: la prospettiva di un’alleanza strategica tra la sinistra, il centrosinistra e il M5S può e deve essere perseguita sulla base di un dialogo politico, e ha come premessa ineludibile, ovviamente, che il governo in carica lavori bene e produca qualche risultato tangibile.

Ma questa prospettiva non ha nulla da guadagnare (anzi) se una nuova legge elettorale dovesse «costringere» gli interlocutori dentro uno schema rigido di alleanze. E lo si vede già oggi, con le elezioni regionali: se le particolari condizioni dell’Umbria hanno reso possibile l’accordo tra Pd, sinistra e M5S, sono ben evidenti le difficoltà che insorgeranno nel caso emiliano o, in primavera, in quello toscano. È bene che il dialogo con il M5S prosegua e si rafforzi, ma occorre che esso maturi sulla base di scelte politiche e programmatiche e che non si scontri subito con lo scoglio di sistemi elettorali che costringano ad alleanze «organiche» che non sono nell’ordine delle cose e che forse non potranno mai esserlo. La rigidità dei sistemi maggioritari è un ostacolo che rischia di essere insormontabile.

E POI, DI QUALE «maggioritario» si parla? È rispuntata l’idea del modello del doppio turno nazionale, simile all’Italicum, con premio di maggioranza: una vera iattura, che riproporrebbe la logica plebiscitaria del suo progenitore. Ma, in generale, tutti i sistemi «a premio» sono deleteri: in primo luogo, costringerebbero ancora una volta alla creazione di coalizioni catch-all, coalizioni in cui tutte le forze marginali e i singoli notabili avrebbero ancora un notevole potere di ricatto: altro che riduzione della frammentazione o garanzie di «stabilità» per i governi. E poi, dal punto di vista della sinistra e degli interessi della democrazia italiana, è davvero saggio ributtare in braccia alla destra salviniana quel che resta di un centrodestra moderato ed europeista?

Ma anche il doppio turno di collegio, alla francese, è davvero impraticabile: con l’attuale struttura multipolare del sistema dei partiti, e con quella prevedibile per un lungo periodo, – e senza la cornice del semi-presidenzialismo – darebbe solo vita ad un patchwork di coalizioni locali, ad un casuale e variabile assemblaggio di alleanze, senza nessuna garanzia che ne derivino stabili maggioranze e anzi rendendo del tutto aleatorio lo stesso livello di rappresentatività del Parlamento, con potenziali e gravissime distorsioni.

E INFINE, ci sono le ipotesi che puntano ancora sui sistemi “misti”, magari modificando le più evidenti storture del Rosatellum. Va ricordato un dato: le elezioni del 4 marzo 2018 hanno prodotto un Parlamento con un basso livello di disproporzionalità, ma questo è stato un esito del tutto casuale, per la compensazione che si è creata tra i collegi uninominali del Nord vinti dal centrodestra e quelli del Sud vinti dal M5S. Il Rosatellum contiene un notevole potenziale di distorsione della rappresentanza: lo riconosce anche il prof. D’Alimonte (solo che per lui questo è un grande pregio del Rosatellum!). E non mi sembra che di questo oggi abbiamo bisogno. I sistemi «ibridi» sono sempre poco raccomandabili: oltre alla scarsa trasparenza e alle complicazioni per gli elettori (su quante schede bisogna votare? C’è il voto disgiunto? Chi pensa ad una riforma del Rosatellum pensa di superare il principale punto critico di questo sistema, ossia il «voto unico» per la quota proporzionale e la quota maggioritaria?), finiscono spesso per assommare i difetti degli uni e degli altri.

Insomma, è bene convincersi che la via da perseguire è quella di un sistema proporzionale con una soglia di accesso ragionevole: è la via più semplice e più razionale, e soprattutto quella che meglio risponde alle esigenze della democrazia italiana. Ma il «ritorno al proporzionale» non è una sciagura, qualcosa a cui acconciarsi in mancanza di meglio: è la via maestra per cercare di ridare una forma alla democrazia italiana