«Adesso il Mes». È un vero e proprio fuoco di fila, dopo le elezioni regionali, sulla cosiddetta «linea pandemica» del Fondo Salva Stati. Perché rinunciare a 36 miliardi quando ce li darebbero addirittura a tassi negativi? Il coronavirus sta mettendo l’economia mondiale con le spalle al muro. Torna pertanto il tema del come e del quanto possano fare le istituzioni pubbliche per evitare che a pagare il prezzo più alto di questo nuovo shock economico siano i ceti più vulnerabili della società. C’è bisogno di tanti soldi e, soprattutto, che arrivino alla vita reale.

In Europa, questo dovrebbe implicare un ricongiungimento della politica monetaria con quella fiscale, con un ruolo decisivo della Bce su entrambi i fronti. Ma tant’è. Finora ogni Stato ha fatto da sé, con tutti i problemi strutturali che si portava dietro. L’Italia ha approvato tre manovre per un valore di 100 miliardi in meno di sei mesi, al netto delle garanzie pubbliche per le imprese. Tantissimo in confronto a tutte le manovre di bilancio costruite negli anni scorsi sotto l’ombrello del fiscal compact.

È stato giusto non badare al deficit e al debito in questa fase. Il disavanzo del settore pubblico agisce nelle crisi come i pompieri di fronte a un incendio. Il problema è che siamo solo all’inizio. E non siamo in America o in Giappone. Qui la regola è che in casi eccezionali si può «deviare» dagli obiettivi di finanza pubblica, ma dopo bisognerà in un modo o nell’altro rientrare nei ranghi. Anche il Recovery fund è incardinato nel «Semestre europeo» e impone «riforme di contesto». Il rischio che dopo la fase emergenziale possa arrivare il tempo della resa dei conti è reale, complice il combinato disposto di recessione ed esplosione del rapporto debito/pil. L’uscita di Conte su «Quota 100» e Reddito di Cittadinanza c’entrano qualcosa? Difficile pensarla diversamente.

Ma veniamo al Mes, che con i conti c’entra eccome. L’istituto è nato per assicurare assistenza finanziaria a paesi falliti o sull’orlo del fallimento, in un quadro istituzionale, quello dell’Unione, che esclude l’ipotesi di salvataggio «solidale» . Quelli che «non possiamo sputare su 36 miliardi» sottolineano che il finanziamento avverrebbe a tassi migliori e che non ci sarebbero condizioni, se non quella di spendere i soldi per la sanità. Troppo semplice. Forse sarà vero – il Trattato istitutivo però non è stato modificato – che «in entrata» non ci sarebbe un memorandum da sottoscrivere, come fu in passato per la Grecia e altri Paesi europei (oggi non intenzionati a ricorrervi di nuovo), ma ciò non esclude che lo spettro del commissariamento del Paese possa materializzarsi in futuro.

Qualunque Stato europeo, a norma dei Trattati vigenti e, nello specifico, del regolamento 472/2013 (Two pack), con o senza Mes, potrebbe incappare in una procedura di «sorveglianza rafforzata» nel caso di «gravi difficoltà per quanto riguarda la sua stabilità finanziaria, con probabili ripercussioni negative su altri Stati membri nella zona euro», ma l’esposizione debitoria con il Fondo Salva Stati potrebbe rendere più concreta e futuribile tale circostanza.

Nel caso dell’Italia, un peggioramento significativo del quadro di finanza pubblica – certo a questo punto – susciterebbe una comprensibile apprensione in ordine alla sua solvibilità, oltre che alla stessa «stabilità dell’euro». E, per effetto del cosiddetto Early Warning System, il meccanismo d’allarme preventivo sulla capacità di rimborso del debitore di cui può avvalersi il Mes (è stato esplicitamente richiamato nel comunicato dell’Eurogruppo dello scorso 8 maggio), la sirena inizierebbe a suonare proprio in Lussemburgo. Il Fondo Salva Stati, valutando per sé la sostenibilità di medio e lungo periodo del nostro debito, andrebbe a svolgere in questo modo una funzione di sentinella per conto dell’intero sistema. Il «vincolo esterno» ne uscirebbe rafforzato e il debito con i mercati indebolito, perché il Mes, tra tutti i creditori, vanterebbe un diritto di precedenza nel caso che il Paese rischiasse il default.

Non si cambia l’Europa accettandone le logiche che più hanno contribuito a far crescere diseguaglianze, precarietà e povertà.