Nel terzo capitolo della Banalità del male, Hannah Arendt racconta un episodio in apparenza poco rilevante rispetto all’entità dei crimini di Eichmann, ma molto significativo per riflettere sulle diverse sfumature del concetto di ‘male’ e sul legame tra questa categoria e la sua rappresentazione.

Il poliziotto incaricato – scrive Arendt – di «salvaguardare il benessere mentale e psicologico» di Eichmann, detenuto a Gerusalemme per il famoso processo, gli portò da leggere Lolita; ma dopo un paio di giorni l’imputato restituì il romanzo con indignazione: «Ma è un libro proprio sgradevole!».

Il rifiuto di leggere Lolita è emblematico e infatti Arendt ne parla per dimostrare come il male assoluto possa convivere con i clichés della ‘normalità’: è appunto questa la banalità del male, cioè la malvagità espressa da un individuo per altri aspetti del tutto convenzionale. Eichmann e Humbert Humbert, il celeberrimo protagonista del romanzo di Nabokov, sono anche per questo incomparabili: non solo, cioè, perché l’uno è esistito e l’altro no, o perché lo sterminio di massa e la pedofilia non sono confrontabili.

Una differenza importante che distingue i due personaggi (anche Eichmann è tale, in un certo senso, quando diventa protagonista del libro di Arendt) riguarda piuttosto la loro personalità: paradossalmente conformista quella di Eichmann, genialmente patologica quella di Humbert. Agli opposti caratteri corrispondono opposte retoriche, cosicché il linguaggio stereotipato del primo (notato da Arendt) cozza con l’estro poetico-umoristico del secondo. Proprio il fascino esercitato dallo stile di Humbert, narratore in prima persona, può rendere ambigua la relazione dell’autore (Nabokov) con il protagonista e soprattutto con i lettori, almeno agli occhi dei critici che si sono occupati con più intensità di letteratura ed etica, come Wayne Booth e, in Italia, Cesare Segre.

Ma è precisamente quel fascino, esercitato in anni più vicini da altri grandi narratori immorali come il Maximilien Aue delle Benevole di Littell, a suscitare un’attrazione seduttiva. (Quanta distanza tra il fantasioso modello del nazista geniale e la ben più concreta e tragica banalità di Eichmann).

A tale forma di esperienza estetica e morale è dedicato il saggio scritto a quattro mani da Stefano Ercolino e Massimo Fusillo, Empatia negativa Il punto di vista del male, che esce nella collana «Agone» diretta per Bompiani da Antonio Scurati (pp. 400, e 14,00) – la stessa in cui ha visto la luce di recente un altro bel libro che ha qualche punto di contatto con questo: La Shoah oggi di Arturo Mazzarella, recensito in «Alias D» lo scorso 25 settembre da Andrea Cortellessa).

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L’empatia negativa, che intercetta e riorienta la lunga e complessa relazione tra la morale e l’immaginario artistico, consiste – spiegano gli autori – in «un’empatizzazione catartica di personaggi, figure, performance, oggetti, composizioni musicali, edifici e spazi connotati in maniera negativa e seduttiva in modo disturbante, o che evocano una violenza primaria destabilizzante, capaci di innescare una profonda angoscia empatica nel fruitore dell’opera d’arte, di chiedergli insistentemente di intraprendere una riflessione morale, e di spingerlo ad assumere una posizione etica (non sempre determinabile a priori, perché largamente dipendente dalle diverse e soggettive reazioni dei fruitori)».

La definizione include, come si è letto, diverse espressioni artistiche che possono sollecitare specifiche reazioni di empatia negativa: in primis il romanzo (con un capitolo, il secondo, dedicato proprio alle Benevole; a scriverlo è Ercolino che firma anche la premessa, il primo e il quarto capitolo, sull’empatia negativa nell’arte); poi la drammaturgia (al centro del capitolo 3, scritto da Fusillo, che cura anche il quinto e il sesto), con Medea, Macbeth, Deafman Glance di Robert Wilson, Il Teatro delle Orge e dei Misteri di Hermann Nitsch; la fotografia (X Portfolio di Mapplethorpe); l’arte contemporanea (I Sette Palazzi Celesti di Kiefer); il cinema (Il nastro bianco di Haneke) e la serialità televisiva (Breaking Bad).

Non tutte le espressioni artistiche provocano reazioni dello stesso tipo; spesso i protagonisti di grandi romanzi come quelli citati, e in generale delle grandi narrazioni, attivano un processo di identificazione con il soggetto diverso dal coinvolgimento provato dallo spettatore di una performance nei confronti dell’artista. Humbert, ad esempio, esercita un’attrazione fondamentalmente razionale prima ancora che empatica (intesa quale immedesimazione emotiva) e la sua inattendibilità rende instabile anche il piano su cui si misura la negatività (diversamente da quanto accade per Max Aue, che agisce nel quadro di quel male ‘assoluto’, la Shoah, evocato da tanta parte dell’arte contemporanea: nel saggio di Ercolino e Fusillo si prende in considerazione, tra le altre, l’opera di Christian Boltanski, cui potremmo affiancare la recente esposizione di Anselm Kiefer al Palazzo Ducale di Venezia, intitolata Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce, che riprende e modella lo scenario rovinoso dell’Olocausto). Ma in tutti i casi l’esperienza empatica, che non dipende sempre dall’identificazione come chiarisce il capitolo teorico, suscita un piacere estetico nei riguardi del male inflitto, subito, inscenato, evocato dall’occasione artistica.

Un presupposto dell’analisi sviluppata da Ercolino e Fusillo è la riflessione sul personaggio non più considerato solo come entità fittizia, ma valorizzato come strumento per la comprensione del sistema di valori in cui il lettore si colloca e con il quale interagisce. Ma il saggio non limita la sua portata alla pur fondamentale teoria del personaggio. Mettendo a frutto un’ampia e aggiornata bibliografia, cui si aggiungono i necessari riferimenti classici (Jauss, Lipps), gli autori osservano infatti come l’identificazione e l’empatia possano riguardare anche «qualcosa di diverso da un personaggio: l’autore, un attore, una situazione, un’ambientazione, uno stile, o un certo tono emotivo».

Nel Trovatore, ad esempio, non è tanto la figura del Conte di Luna, il ‘cattivo’ della storia, a suscitare empatia, quanto la bellezza delle arie da lui cantate, che evocano emozioni e sentimenti universali come l’eros. In casi come questo, il processo empatico è il risultato di un conflitto o almeno di una contraddizione che non viene regolata da una formazione di compromesso, ma genera e enfatizza un attrito. L’incendio che ne deriva viene lasciato divampare ed è questa condizione a carico del lettore o dello spettatore che determina l’empatia negativa. Una condizione che, proprio perché interessa chi riceve l’opera più ancora che i contenuti e le forme di questa, si caratterizza come esperienza attiva dell’arte e possibilità di agency dei suoi fruitori. L’obiettivo del libro perciò è quello di riconoscere nell’empatia negativa una categoria di riferimento per interpretare l’estetica artistica contemporanea nel suo complesso, sia pure con le molte sfumature che i diversi casi analizzati esibiscono.

D’altra parte, è possibile contare sulla categoria anche per la sua funzione storica, per esempio individuando – come fa il saggio – una genealogia di personaggi letterari ‘satanici’ che va appunto dal Satana di Milton (Paradiso perduto) al Karl Moor di Schiller (I masnadieri), dall’Achab di Melville (Moby Dick) al Jean-Claude Romand di Carrère (L’avversario), fino ancora al protagonista del romanzo di Littell; oppure interpretando un capolavoro della pittura moderna, quale il Martirio di Caravaggio, come un’opera che trasforma «la nostra irriflessa e incarnata reazione empatica alla fisicità ostentata a feroce del carnefice di Matteo in una complessa e tormentata meditazione morale sulla morte, sul sacro, sulla violenza e sulla nostra capacità di compierla». Proprio questa domanda tormentosa – sarei, sono capace di fare il male? – è la cifra dell’empatia negativa e la ragione per la quale ci riguarda.