Una società è sana se i suoi cittadini vivono liberamente i loro desideri e sentimenti, godendone, con tutte le contraddizioni e i conflitti (interni ed esterni) che implicano. Se riconoscono nel dolore una possibilità di apprendimento sui loro limiti e su ciò che ha davvero valore per loro e non vanno in cerca di un’esistenza anodina che li obnubila e li estrania dalla vita. Se assumono la responsabilità dei loro insuccessi e non li scaricano su capri espiatori. Se non hanno una visione difensiva, onnipotente della realtà che nega le difficoltà, ma accettano le limitazioni che essa pone, cercando di usarle a loro favore. Se non agiscono impulsivamente, secondo la disposizione d’animo del momento, ma sedimentano le loro spinte pulsionali e le loro emozioni e usano la ragione per elaborarle e dare loro espressione creativa e costruttiva. Se i loro progetti imparano dal passato e mettono radici nel futuro. Se sono disposti al lavoro di lutto necessario per superare convinzioni che hanno fatto il loro tempo e sono diventate improduttive. Se sono resistenti nella loro umanità e vitalità – capaci di imparare dall’esperienza e trasformare la loro relazione con la realtà- e non diventano prigionieri della resilienza – che congela la loro posizione nel mondo- col rischio di devitalizzarsi.

Una società sana garantisce ai suoi cittadini condizioni stabili e soddisfacenti di lavoro, non li aliena assoggettandoli ad attività performanti. Protegge e favorisce la loro organizzazione sindacale e tutti i legami solidali sensibili all’interesse comune. Ferma l’eccesso di automazione e di digitalizzazione perché sa che distrugge la loro creatività produttiva, dissolve il loro potere contrattuale, inaridisce il loro dialogo e svilisce la loro intesa. Soddisfa le loro esigenze materiali perché non vivano in condizioni oggettive precarie e possano sentirsi sereni nel realizzare un loro modo personale di sentire e di pensare; non usa l’appagamento del bisogno per anestetizzarli.

Una società sana promuove il pensiero critico e non una generica libertà di parola. Difende le differenze di ogni tipo e facilita in tutti i modi la loro espressione e il loro accordarsi, non le chiude in scompartimenti stagni né le fa diventare fonte di malessere che produce impulsi da scaricare. Insegue, in ogni settore della vita, la parità degli scambi: il rispetto dell’alterità come condizione di ogni autentica realizzazione soggettiva. Crea spazi conviviali: aree di incontro ma anche di passaggio che mettono insieme il familiare e l’estraneo, luoghi dove il particolare anima l’universale. Media i conflitti e li trasforma in forza propulsiva di rinnovamento. Fornisce ai giovani gli strumenti necessari per accedere all’arte, alla cultura e al sapere scientifico, rispetta la loro insofferenza, impara dalla loro ribellione e vede nella loro incoerenza il diritto di transitare in uno spazio sperimentale di formazione. Valorizza la creatività e la profondità erotica femminile, non cerca di addomesticarla.

La società sana e la società democratica sono indissociabili. Entrambe sono fondate sui processi di trasformazione che promuovono, da cui si alimentano e restano vive e feconde.
La trasformazione ha il suo opposto nella conservazione con cui è in conflitto e insieme dialoga. La conservazione ha una sua origine nobile nel principio di continuità della materia psicocorporea individuale e collettiva dell’umanità (la condizione della sua trasformabilità) che nella sua essenza coincide con la cura del desiderio e della libertà dell’altro.

Dissociata da questo principio, la conservazione diventa immobilità, potenza uniformante che vede in ogni divergenza una devianza da correggere, un legno storto da raddrizzare. La vocazione correttiva è la sostanza del manifesto a-politico della risorgente estrema destra nell’Occidente. Se il mondo è malato non disprezziamolo. Saniamolo, non lasciamo che diventi un inferno.