Un fatto è certo: la nostra zootecnia, la pastorizia e gran parte delle grandi aziende agricole non esisterebbero senza la mano d’opera offerta a basso costo dagli immigrati. Ma, il supersfruttamento della forza-lavoro immigrata non è solo una conseguenza delle leggi del mercato capitalistico, è anche il frutto di una visione miope e subalterna della gran parte delle nostre aziende agroalimentari.

Come testimonia l’esistenza di Sos Rosarno, la rete di imprese che aderiscono al programma “Spartacus”, “Calabria solidale”, le “Galline Felici” in Sicilia e tante altre esperienze, è possibile costruire una filiera agro-alimentare rispettando i diritti dei lavoratori, facendo guadagnare i proprietari delle aziende agricole e dando ampie soddisfazioni ai consumatori.

Una magia? No, semplicemente basta uscire dal dominio della grande distribuzione e creare una relazione diretta tra aziende che rispettano l’ambiente e i diritti dei lavoratori, e le organizzazioni dei consumatori responsabili, come sono i Gruppi d’Acquisto Solidale o le organizzazioni del “fair trade”. Ci guadagnano i braccianti, i contadini, i proprietari di piccole e medie aziende agricole che entrano in un percorso di legalità sociale ed ambientale.

Infatti, le aziende agricole che sfruttano gli immigrati a loro volta subiscono i ricatti della grande distribuzione che compra i prodotti della terra a prezzi irrisori e li rivende al consumatore con un ricarico finale che arriva fino a dieci volte il costo di produzione agricolo.

Questo distorto e cieco meccanismo di sfruttamento intensivo dei lavoratori e della terra, ha prodotto non solo danni ambientali crescenti, desertificazione delle terre agricole, ma ha anche messo fuori mercato molte piccole e medie aziende. Come ricordava Piero Bevilacqua, noto studioso della storia dell’agricoltura nel nostro paese, negli ultimi trent’anni sono scomparse in Italia un milione e mezzo di aziende agricole.

Il risultato finale è poco noto, ma paradossale: l’Italia, famosa nel mondo per le sue eccellenze alimentari, ha un deficit della bilancia alimentare che si trascina da decenni e che nel 2018 faceva registrare 4 miliardi di passivo, come risultato di un bilancio positivo nell’industria alimentare e di un passivo di quasi 8 miliardi nel settore agricolo! Importiamo la gran parte del grano, della soia, della carne, del latte che consumiamo.

Se riuscissimo a riportare in pareggio la bilancia commerciale agro-alimentare creeremmo qualcosa come 30-40.000 nuovi posti di lavoro annuali e due volte tanti stagionali.

Come fare? Non c’è una sola risposta, ma forse un punto di partenza sì: recuperare le terre abbandonate. Solo nelle aree collinari del Mezzogiorno sono oltre il 30%, e una percentuale non lontana la troviamo anche nel Centro-Nord e nelle zone alpine non turistiche. Ci vorrebbe una seconda Riforma Agraria per mettere a coltura questo grande patrimonio agro-pastorale. Bisognerebbe però fare tesoro degli errori della prima.

Come forse non tutti ricordano, nel 1950, sotto la spinta delle lotte bracciantili e dei contadini senza terra, il governo democristiano varò la Riforma Agraria che interessò le terre incolte del Mezzogiorno, che vennero strappate al latifondo e consegnate ai contadini meridionali. Nella maggior parte dei casi venne distribuito circa un ettaro a famiglia contadina, mediamente con sei sette figli, ma senza mezzi agricoli, sementi, accesso al credito agricolo, e mezzi per commercializzare i prodotti della terra.

Risultato: dopo una decina d’anni le terre furono in parte nuovamente abbandonate, i contadini emigrarono per andare a lavorare come operai nel Nord. Per non ripetere gli stessi errori occorre pensare ad un piano complessivo di rinascita delle terre incolte e dei paesi abbandonati che avrebbe, fra l’altro, un benefico effetto sulla prevenzione degli incendi e del dissesto idrogeologico. Tale piano dovrebbe essere parte di una programmazione democratica di nuovo tipo, capace di rilanciare l’economia produttiva sulla base dei nuovi bisogni della popolazione. Un piano non solo economico, ma sociale e culturale per far rinascere queste aree, per renderle nuovamente vivibili.

Negli ultimi anni, come è dimostrato da alcune inchieste, c’è una riscoperta del valore del lavoro agricolo, che deve essere adeguatamente retribuito. I giovani andati o tornati nelle campagne sono aumentati negli ultimi 5 anni del 12% e hanno per lo più avviato esperienze di produzione innovative.