Dovunque nel mondo, «rigenerare», come il nuovo lessico urbano impone di chiamare le trasformazioni di parti più o meno vaste di città, non è indipendente dalle logiche del mercato immobiliare che nel mattone vede mitigate la volatilità dei capitali finanziari. Dall’estetica di edifici moderni, efficienti ma soprattutto originali, ne sono appagati anche i politici. Per ricevere consenso alienano aree e immobili pubblici, indifferenti al cambiamento sociale (displacement) che ne consegue.
In questi anni le strategie della «rigenerazione», mascherate da amministratori pubblici, urbanisti e accademici come pragmatica rifunzionalizzazione delle aree centrali o di recupero di una migliore vivibilità nei quartieri periferici, sono tutte riconducibili al fenomeno più articolato e complesso della gentrificazione.
Parliamo di un fenomeno che, come fu spiegato agli inizi degli anni Sessanta dalla sociologa marxista tedesca Ruth Glass con le sue ricerche pionieristiche su alcuni quartieri di Londra, ha oggi la necessità di essere compreso andando oltre il suo sommario significato economico e sociale.
Come dimostrano molti studi che da allora si sono susseguiti sull’argomento, i programmi di rigenerazione urbana – anche quelli d’iniziativa pubblica– sono spesso funzionali alla gentrificazione e come alcuni urbanisti sembrano ignorare, non sono più le leggi e le norme urbanistiche idonee a regolarla o gestirla come esito imprevisto o, a volte, calcolato: la gentrificazione investe ambiti più estesi di quelli fino a oggi considerati che esulano da aspetti di carattere solo tecnico urbanistico.
Appare difficile credere che la rigenerazione urbana abbia ancora un significato neutrale, soprattutto nell’attuale fase neoliberista del capitalismo, dove il settore del real estate incide, come già chiarì Henry Lefebvre, in modo consistente sulla nostra «vita quotidiana». Inoltre, ci si deve interrogare se i programmi di trasformazione non siano causa anch’essi di quella dissoluzione di socialità e di urbanità che con altre forme di organizzazione il capitale realizza «colonizzando» la città per stabilire nuovi rapporti dominanti, più complessi delle forme conosciute di sfruttamento e appropriazione.
Con il titolo La gentrificazione è inevitabile e altre bugie (Treccani, pp. 293, euro 24, traduzione Elisa Dalgo) Leslie Kern, docente di Geografia e ambiente alla canadese Mount Allison University di Sackville, affronta secondo una «concezione allargata» la gentrificazione per illustrare, sulla scorta di una ricca documentazione e molti esempi presi dalla cronaca, quanto il tema abbia risentito di un’esposizione sovrastante che ha precluso altri punti di vista. Quello queer femminista, ad esempio, attraverso il quale è possibile ampliare la componente di classe del fenomeno urbano in questione, visto che la classe sociale «è sempre in relazione con l’etnia, il genere, la sessualità, il colonialismo e altri rapporti di forza».
Per spiegare la sua tesi sulle possibilità di una «resistenza efficace», Kern parte dalla sua esperienza di giovane madre nel quartiere di Junction: una zona di Toronto anonima e misera che diventa alla metà degli anni Duemila, il «quartiere più in voga».

IL SUO RACCONTO PERSONALE è solo il primo dei sette nei quali descrive gli aspetti camaleontici con i quali si presenta un fenomeno relegato fino a qualche tempo fa al dibattito accademico e che ora «sempre più persone vogliono capire». Il mutamento più rilevante che questo termine ha subito da quando fu coniato da Glass, è il ruolo assunto dalle amministrazioni cittadine che promuovono «politiche che spianano la strada a determinati tipi di sviluppo immobiliare e commerciale» mirate a «incoraggiare deliberatamente il reinvestimento delle classi medio-alte».
Per inserire in quartieri marginali e popolari i ceti più abbienti con strategie che le amministrazioni pubbliche combinano insieme con i developer immobiliari, quest’ultime offrono agevolazioni, incentivi e interventi diretti e così si «aggira la spinosa questione del cambiamento di classe» che investe parti della città con tutti i suoi contenuti d’ingiustizia anche se, appunto, «mascherati dal rilancio urbano».
La classe sociale non è l’«unica lente» con la quale intendere la «logica della gentrificazione»: questa richiede un’analisi intersezionale che mette in gioco altri fattori quali il genere, l’etnia, l’etero normatività, l’età, il colonialismo, ecc..

Manifestazione delle associazioni di inquilini su Columbia road per protestare contro le minacce di sfratto a Washigton Foto Nancy Shia

SI PRENDA LA DISUGUAGLIANZA di genere. Il saggio illustra con accurati riferimenti come per capire la disparità di classe sia importante evidenziarla nel processo della gentrificazione. È quanto sostiene la geografa femminista Winifred Curran che ha riconosciuto la matrice di genere nei molti casi di allontanamento ed esclusione sociale oppure della stessa Kern che, affidandosi alla metodologia qualitativa dell’analisi intersezionale, rilevò quanto nello sviluppo urbano dei condomini fossero fondanti le teorie sulla sicurezza, l’indipendenza economica e la libertà professionale delle donne (Kern, 2010) proprio per legittimare la scelta di questa specifica tipologia.
Assodato, quindi, che la gentrificazione concorre a fare convergere «il potere e il denaro verso gli uomini», altrettanto meritevole di attenzione è l’influenza che la studiosa individua nelle discriminazioni razziali. Queste sono per lo più collegate al mercato degli immobili nel contesto statunitense e hanno origine negli anni Trenta con le pratiche razziste del redlining: mappe con sopra segnato a colori il grado di rischio delle aree urbane e con il rosso quelle escluse dall’accesso a mutui e prestiti. Con riferimento agli scritti di Ta-Nehisi Coates, Kern chiarisce quanto ancora sopravvive di quelle prassi discriminatorie che hanno «contribuito a aumentare la ricchezza dei proprietari bianchi».

L’AUTRICE SI SOFFERMA diffusamente sul divario economico creato dalle politiche e dinamiche razziste nella realtà urbana. Le pagine che affrontano questo tema sono le più gravide di riflessioni critiche poiché non solo l’autrice elenca un ricco numero di episodi che provano il cinismo di amministrazioni cittadine e di aziende, che con «impegno congiunto» consentono di capitalizzare il suprematismo bianco, ma perché ancora oggi «il furto di ricchezza ai danni di proprietari razzializzati continua in una miriadi di modi».
Oltre il depredare le comunità nere e asiatiche, il saggio esamina le logiche coloniali di espropriazione delle terre appartenenti ai popoli indigeni da parte dei «colonizzatori d’insediamento» prendendo ad esempio quanto è accaduto storicamente in Australia e in Canada.

PUÒ ESSERE SCONTATO come la proprietà privata, che si dà legittimamente inviolabile e coincidente con la sua struttura spaziale ordinata a scacchiera degli abitati del primo mondo, derivi da una conversione delle terre delle popolazioni indigene avvenuta in periodi di dominazione coloniale. Di conseguenza, la contestazione della gentrificazione non è estranea ai temi sostenuti dai movimenti contemporanei per la sovranità indigena (Land Back Movements) che Leslie Kern richiama affinché si possa «creare una diversa visione urbana».
A conclusione del saggio il suo invito è di eliminare le «favole» e le «omissioni» dal racconto della gentrificazione. Depurato questo con i contributi tra loro interagenti dell’attivismo queer femminista, antirazzista e decoloniale, illustrati dall’autrice con esemplare chiarezza, si potranno realizzare in futuro politiche antigentrificazione ancora più efficaci di quelle già emerse. Occorre, però, cambiarne la narrazione perché «non è scolpita nella pietra. E se anche lo fosse – dichiara con sarcasmo l’autrice – noi abbiamo scalpelli e martelli pneumatici e molta vernice spray».