Mitch Green si rimette in piedi e strappa lo specchietto retrovisore dell’auto, facendo infuriare Mike Tyson che scende dalla limousine e gli sferra un montante destro, divenuto il marchio di fabbrica del pugile. Il pugno lo fa letteralmente volare in aria. Green ricade su se stesso di testa, accartocciandosi poi come una bambola di pezza. In quel momento l’auto di Tyson parte a tutta velocità, mentre Iron Mike è convinto di aver ammazzato a mani nude il suo contendente.
Questo scontro brutale tra Mitch «Blood» Green e Mike Tyson non è avvenuto sul ring, come era invece accaduto al Madison Square Garden nel maggio del 1986, sei mesi prima che Iron Mike diventasse il più giovane campione dei pesi massimi della storia annichilendo Trevor Berbick. Questo pestaggio avviene nell’agosto 1988 alle 4 della mattina ad Harlem, più precisamente sulla 125esima strada, davanti al negozio del leggendario stilista Dapper Dan. L’incidente viene riportato il giorno successivo sul Monday Night Football, aggiungendo ulteriori rumors sulla vita fuori dal ring di Tyson, e trasformando Dapper Dan da imprenditore locale a stilista di fama internazionale.
Mitch Green oltre a esser un discreto pugile, era anche membro di una famigerata gang di Harlem e credeva che l’ingresso di Tyson nel suo territorio, nelle prime ore del mattino, fosse una libertà che non poteva accettare. Iron Mike era ad Harlem per andare a ritirare la sua giacca di pelle bianca da 850 dollari, con la scritta «Don’t Believe the Hype» – il titolo di un celebre brano dei Public Enemy – blasonato sul retro, dopo una notte di bagordi a Manhattan.
Quest’episodio aiuta a comprendere l’immersione di Tyson nella cultura di strada e nelle subculture della New York degli anni Ottanta. E proprio sulla vita di Tyson, il suo mondo e le sue vicissitudini, il regista Steven Rogers ha realizzato Mike, la controversa miniserie trasmessa su Disney+, che esplora la storia di Mike Tyson attraverso i tumultuosi alti e bassi della vicenda personale: da atleta amato in tutto il mondo a emarginato. Concentrandosi sulla sfera individuale del pugile, la serie esamina inevitabilmente questioni legate a razza e classe, una sorta di atto d’accusa nei confronti di una società che non è in grado di affrontare le proprie contraddizioni e si limita a farne sempre una nuova occasione di profitto. Ma non solo, analizzando alcuni particolari anche marginali questa serie ci racconta anche la stretta relazione tra boxe e cultura hip hop.

CAMPIONE DEL MONDO
La storia di Mike Tyson coincide con quella della conquista del mainstream da parte della cultura hip hop, in particolare, l’incoronazione di Mike Tyson a campione del mondo nel 1986 coincide con la nascita della Golden Age. Durante la sua ascesa, Tyson è stato uno dei primi pugili a vivere e rappresentare la cultura hip hop, utilizzando canzoni rap come colonna sonora della sua entrata sul ring, venendo citato in numerose rime e apparendo in cameo nei video musicali dei suoi artisti preferiti. Mike era una presenza regolare nei locali notturni di New York come il Latin Quarter frequentando artisti del calibro di Eric B. e Rakim e LL Cool J. Non è un caso che Tyson si trovasse nel negozio di Dapper Dan – lo stilista preferito da gangster, papponi e artisti – quella notte di agosto del 1988.
In un certo senso Tyson era l’epitome dell’hip hop: sfacciato, audace, ruvido, potente, pericoloso e sconsiderato. Tutto ciò che Iron Mike faceva all’interno dell’arena da combattimento aveva un alone intimidatorio. Calzoncini neri senza calzini, un asciugamano bianco invece di una vestaglia di raso e lo sguardo fisso sull’avversario: l’ingresso di Iron Mike era crudo, essenziale, vecchia scuola. Il pugile rappresenta l’esempio più eclatante del desiderio di gratificazione immediata (il ko istantaneo) e di oratoria (in)conscia dei giovani degli anni Ottanta: ciò che i rapper facevano con le rime, Tyson lo faceva a suon di cazzotti.
Sono Spoonie G con Mighty Mike Tyson del 1987 e DJ Jazzy Jeff and the Fresh Prince con I Think I Can Beat Mike Tyson del 1989 (che farà anche un cameo nel video) i primi artisti rap a citare Tyson nelle loro liriche; di sicuro, però, Iron Mike non è stato il primo boxeur celebrato dalle liriche rap. Alle origini del rap, nel primo pezzo inciso su vinile, Rapper’s Delight, troviamo un tributo al leggendario Muhammad Ali, mentre in The Message c’è un riferimento a un altro campione: Sugar Ray Leonard. Questa relazione quasi simbiotica tra boxe e hip hop trova ragione nella demografia che lega atleti e artisti, giovani che rappresentano la stessa faccia dell’America, quella afroamericana figlia del disagio sociale che trovava rivalsa e affermazione nello sport e nella musica. Inoltre, il rap è una celebrazione della vita, dei luoghi, di un’epoca ma anche un microscopio sulle tribolazioni, le speranze e i sogni di quei giovani artisti sebbene, nella sua forma più cruda, le battle, come la boxe, non lascino spazio alcuno alla pietà: l’obiettivo è l’eliminazione dell’avversario.

IL PIONIERE
Prima di Tyson, Muhammad Ali era stato il pugile eroe dell’hip hop, anzi per alcuni è da considerarsi uno dei pionieri del rap. Prima dei suoi incontri, infatti, Ali intratteneva giornalisti e pubblico con rime pensate per colpire l’avversario. Per esempio, prima di combattere contro Joe Frazier nelle Filippine pronunciò la famosa frase «It’s gonna be a thrilla, a chilla, and a killa when I face the gorilla in Manilla». Non solo, nel ring Ali sferrava combinazioni di pugni non ortodosse contro i suoi contendenti mentre li scherniva con le sue liriche. In alcune rare occasioni i rapper hanno tentato di imitare o vestire il ruolo dei pugili (Grandmaster Melle Mel vs Willie D dei Geto Boys) e, viceversa, i pugili hanno posato i guantoni per prendere in mano un microfono e dar sfoggio delle loro abilità liriche.
A rinforzare ulteriormente il legame abbiamo assistito negli ultimi anni a rapper che accompagnano sul palco dei pugili: nel 2014 Lil Wayne con Floyd Maywheather e nel 2018 Lil Kim con Deontay Wilder sono forse gli esempi più eclatanti, ma non certo gli unici. Anche in ambito pubblicitario abbiamo assistito a diversi spot che si muovevano in questa direzione, il più famoso è quello della Reebok, dove compaiono il rapper 50 Cent e l’ex campione Winky Wright, altro atleta fortemente legato alla cultura hip hop. A voler andare agli estremi di questo ragionamento, anche i litigi tra i rapper, come quello tra Drake con Meek Mill o quello di Kanye West con 50 Cent, rimandano in maniera diretta alle grandi rivalità tra pugili famosi come Mayweather e Pacquiao, Tyson e Foreman. La competizione tra rapper per la prima posizione nella classifica rimanda alla promozione degli incontri da parte dell’imprenditore Don King. Entrambi gli artisti/pugili possiedono talenti superiori, ma uno dei due deve perdere. La boxe, così come il rap, è un gioco a somma zero.
La fascinazione tra boxe e hip hop trova forse la sua espressione più alta in The Motto, traccia del 2004, nella quale Method Man rappa: «These rappers are fightin’, like Tyson/When nothing else work, ya start biting». Un gioco di parole perfettamente riuscito che, se da un lato rimanda al famoso «Bite Fight», l’incontro tra Tyson e Evander Holyfield del 1997, durante il quale un Tyson in forte difficoltà strappò a morsi un pezzo d’orecchio al suo avversario, dall’altra gioca sul termine biting in inglese mordere, che però nel gergo hip hop descrive un artista che copia lo stile di un altro. Da quanto scritto emerge che il rap è boxe e la boxe è rap, poiché ogni «barra» (verso) è sferrata come fosse un pugno.