Cosa succede quando si stacca la corrente al prog? Al netto del consumo energetico, non sono poche le conseguenti affinità con le atmosfere della musica classica. Ora più d’un maestro storcerà il naso e si affretterà a serrare le recinzioni che demarcano — sempre più a fatica — i campi dei generi musicali. Impenitente trasgressore delle dogane sonore, Steve Hackett continua invece a saltare le staccionate, alla guida di quel drappello di chitarristi che partendo dai territori di Hendrix sono approdati a quelli di Segovia.

FU PROPRIO L’IBERICO — dal lato A di un disco di trascrizioni bachiane — a svelare all’allora quindicenne musicista londinese la magia polifonica delle corde in nylon. Fu invece il lato B di un altro Lp, pochi anni dopo, a inaugurare la sua personale rilettura di quel repertorio. L’album era Foxtrot, il brano Horizons, variazione sul più celebre Preludio per violoncello di J. S. Bach. Poi il dopo-Genesis e una serie di dischi interamente acustici, da Bay Of Kings (1983) a Tribute (2008). Un discorso che ora si riapre declinando il topos del viaggio musicale attraverso il Mare Nostrum con Under A Mediterranean Sky (InsideOut Music).
Prog? World? Classica? Il Mediterraneo di Hackett è mare di tutti. Mdina è un’ouverture in piena regola strutturata attorno alla grammatica del concerto per chitarra e orchestra, e dal pentagramma piovono omaggi a Debussy e al Rodrigo di Aranjuez. Anche le tinte «etniche», più che agli orizzonti della world, sembrano intonarsi alle influenze modali presenti nella musica eurocolta fin dal primo Novecento (si ascolti The Dervish & The Djin).
Incantevoli gli episodi di chitarra sola, da Adriatic Blue in cui gli arpeggi di Asturias si innestano a progressioni da preludio di Bach — ancora lui — a Joie De Vivre, armonicamente vicina a tanti standard folk. Parlando di chitarra classica, la tradizione ispanica — riverita in Andalusian Heart — la fa da padrona; ma c’è spazio anche per il barocco italiano con la Sonata di Scarlatti e le reminiscenze pompeiane di Casa Del Fauno.

IL MAESTRO di cui sopra ora aggrotterà le sopracciglia, appigliandosi all’ortodossia della tecnica classica qui vilipesa. Ma chiudendo gli occhi e abbandonandosi alla musica dovrà anch’egli riconoscere che Steve Hackett resta tra i pochi musicisti rock a meritare rispetto anche sullo strumento acustico. In queste undici tracce l’ex Genesis è affiancato da Roger King, cui si deve la coerenza degli arrangiamenti, mentre Malik Mansurov al tar (parente del liuto di origine persiana) e Arsen Petrosyan al duduk (strumento a fiato tradizionale armeno) conferiscono al sottotesto etnico pronuncia da madrelingua.

SE PROPRIO SI VUOL ragionare per generi e idiomi, quindi, non ci si può fermare al dualismo prog-classico: «Mio padre era un pittore» racconta Steve, «e spesso realizzava meravigliosi paesaggi esotici. Questo è il mio equivalente musicale: è come dipingere luoghi dove in questo momento non puoi andare di persona. Non è modernità, è pan-genre».