Leslie Chang, americana di nascita e cinese di origine, non aveva alcuna intenzione di andare in Cina. Ma il Wall Street Journal ha visto nelle sue origini un’opportunità non sfruttata. E le ha offerto il posto da corrispondente. Così ha vissuto per tre anni a Dongguan, una città industriale dove migrano milioni di persone dalle campagne di tutta la Cina. Un agglomerato di industrie in continua espansione che costruisce la sua identità su un paio di slogan: “edificare la città, costruire le strade, riqualificare le montagne, incanalare i fiumi” e “un grande passo all’anno, una nuova città in cinque anni”.

L’autrice ci racconta la quotidianità delle ragazze che, giovanissime e determinatissime, si recano in città per fare carriera. Lavorano a ritmi massacranti e nel tempo libero studiano l’inglese per cercare di migliorare la loro posizione e il loro salario. La loro vita, la loro rete di relazioni è appesa a un cellulare. Nella metropoli di Dongguan, perdere il telefono significa azzerare tutti gli sforzi compiuti e ricominciare da zero perché tutto è in perenne trasformazione.
Le operaie di cui ci racconta la Chang si spostano da una fabbrica all’altra, da un dormitorio a un giaciglio di fortuna, da una scuola serale a un karaoke senza lasciare traccia del loro passato. Senza un’amica a cui lasciare l’indirizzo. Diplomi e documenti falsi fanno parte della quotidianità di molte di loro. Si può falsificare la data di nascita perché si è troppo giovani o troppo vecchi per fare il lavoro che si è chiamati a fare. È un mondo duro, una società che insegna che “quelli troppo onesti vengono fatti fuori”.

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