La battuta di D’Alema sulla “malattia” del renzismo e sulla presunta, avvenuta guarigione del Pd, ha suscitato un gran trambusto; ed è stato fin troppo facile ricordare che quel malanno ha potuto allignare e trovare un terreno molto fertile proprio nella estrema fragilità che ha caratterizzato sin dalle origini la natura stessa di questo partito. Sono molti coloro che dovrebbero esercitare un po’ di autocritica. Se andiamo a rileggere, ad esempio, gli atti del convegno di Orvieto dell’ottobre 2006, il vero atto fondativo del Pd, troviamo l’origine delle “tare”: ad un livello “alto” di elaborazione, che oggi peraltro nemmeno viene sfiorato, lo storico cattolico Pietro Scoppola teorizzò apertamente la natura “post-ideologica” del nuovo partito. Per tenere insieme le diverse tradizioni della cultura politica democratica, nessuna di queste poteva prevalere: il nuovo partito doveva/poteva reggersi solo sulla convergenza programmatica, a partire ciascuno dalla propria storia e identità. Sulla carta, poteva funzionare; ma la storia del Pd ha dimostrato che un partito, privo di un proprio autonomo profilo di cultura politica, alla fine implode, e può sopravvivere solo come un assemblaggio di cordate di potere.

L’altra relazione, a Orvieto, fu tenuta da Roberto Gualtieri, all’epoca vice-direttore dell’Istituto Gramsci: Gualtieri proponeva una generosa sistemazione teorica dell’identità, non fondata su una semplice convivenza, ma su una feconda interazione tra la cultura politica dei cattolici democratici e quella della tradizione socialista e comunista. Peccato che il partito tutto divenne fuorché un luogo di elaborazione politico-culturale (alla cui necessità Alfredo Reichlin, disperatamente, finché ha potuto, ha cercato di richiamare..).

Per gli annali, va ricordato che, ad Orvieto, l’unico, timido distinguo venne proprio da D’Alema: ma non sulla sostanza del nuovo progetto, bensì sul clima “anti-partito” che in quella stessa sede già si respirava profondamente, segnato da una sorta di ubriacatura ideologica per le “primarie di Prodi”, assunte come mito fondativo. D’Alema avvertiva che, senza i partiti, Ds e Margherita, e senza i loro militanti, le stesse primarie non si sarebbero potute nemmeno organizzare. Ma non era certo questo debole richiamo che poteva fermare il trionfale viaggio che si annunciava. Ed è davvero singolare che Renzi continui ad evocare il mitico 40% delle Europee del 2014 e che nessuno gli ricordi come sia stato lo stesso Renzi a fare poi precipitare il Pd al 18% del 2018.

Letta sta provando a fermare questa caduta? Ci potrà riuscire? Ci vuole molta buona volontà per scorgere qualche segno di ripresa; le cosiddette “agorà”, ben che vadano, saranno un’occasione di dialogo, non certo quel vero e autentico momento congressuale di cui avrebbe vitale bisogno. E qui si innesta il discorso sul possibile rientro non solo di quanti uscirono con la scissione del 2017, ma del ben più ampio numero di militanti ed elettori che hanno abbandonato il Pd anche prima di quella data (come “fatto personale”, preciso che l’autore di questo articolo appartiene a questa schiera di homeless: sono uscito dal Pd nel 2014).

Facciamo allora un discorso schietto: coloro che propugnano questo rientro nel Pd hanno obiettivamente un punto di forza a loro favore, ma devono fare i conti con un altrettanto grave punto di debolezza. A favore, gioca il fatto che sono oramai ben pochi quelli che credono nella possibilità che, a sinistra del Pd, possa nascere un nuovo, consistente e credibile partito. L’ultimo tentativo poteva essere quello di dare un seguito all’esperienza di LeU, ma è stato fatto fallire, per varie ed equamente distribuite responsabilità, non da ultimo quelle dei gruppi dirigenti di Articolo Uno e di Sinistra Italiana. Lasciamo perdere: non serve più a nulla rimestare nel passato.

Non hanno tutti i torti quanti pensano che, a questo punto, un grande partito sia comunque la sede migliore per cercare di ricostruire una forza della sinistra in Italia. E proprio qui, però, cogliamo il punto di massima debolezza: il Pd sta facendo di tutto per rendere davvero poco credibile questa prospettiva, non tanto per le sue scelte programmatiche (che in sé, appunto, potrebbero essere reversibili, oggetto di un dibattito e di uno scontro politico interno), quanto per la sua natura davvero inospitale. Rientrare, sì, ma a fare che? A rimpolpare le fila di questa o quella corrente? Possiamo forse scorgere qualche segno di quella che un tempo si chiamava “agibilità democratica”, ossia l’esistenza di luoghi e spazi effettivi di partecipazione, di un vero circuito procedurale di discussione e decisione democratica?

Un processo di allargamento degli attuali confini del Pd, e un’eventuale trasformazione del suo profilo politico e culturale, saranno forse possibili, ma solo a patto che si metta in cantiere un vero congresso (non l’ennesima elezione diretta del segretario, tramite le cosiddette primarie). Vedremo se e come questo potrà accadere. Intanto, ci saranno presto le nuove elezioni politiche, al più tardi tra poco più di un anno. Se rimarrà una legge elettorale che preveda il vincolo di coalizioni pre-elettorali, dentro il campo democratico, oltre al Pd (e al M5S, ovviamente: altrimenti non c’è nemmeno partita), sarà necessaria una lista di sinistra in grado di raccogliere almeno il 3%. Ma non è certo il caso di caricarla oltre misura di aspettative politiche: presentarla sotto il segno della continuità con le formazioni politiche oggi esistenti sarebbe il modo migliore per affossarla. La cosa più saggia sarà quella di provare a replicare alcune tra le più riuscite esperienze locali di liste di “sinistra, civiche ed ecologiste”, in grado di rappresentare, con alcune candidature innovative, quanto di vivo continua nonostante tutto ad esserci. Sarà difficile, ma forse è l’unica strada da percorrere.