Si chiamava Eleonora Levi, abitava in corso Massimo d’Azeglio 12, a Torino. Ma «i tedeschi» se la portarono via da un letto della clinica Sanatrix dove era ricoverata. Morì ad Auschwitz nel 1944, aveva sessant’anni. La Pietra d’Inciampo che la ricorda, incastonata nel selciato davanti alla casa di Eleonora, è la numero cinquantamila in Europa. Pietra d’inciampo, Stolpersteine, un porfido di ottone lucente, dieci centimetri per dieci, che porta incisi la dicitura «Qui abitava», il nome, la data di nascita, il luogo di deportazione e, quando ciò è possibile, la data di morte. Si deve all’artista tedesco Gunter Demnig l’idea di far «inciampare», in questa minuscola memoria coloro che non hanno vissuto i giorni e i mesi della più grande tragedia del ’900. Inciampare. Cioè accorgersi di quelle presenze, leggere nomi e date, sentirsi spronati a riflettere. Le pietre di Demnig sono divenute il monumento dal basso più diffuso nel Vecchio Continente. Della loro posa, infatti, non sono le istituzioni pubbliche a decidere, ma i singoli cittadini e le associazioni che vogliono ricordare una vittima del nazifascismo. Le Pietre d’Inciampo in Italia si incontrano, tra le altre città, a Brescia, Genova, Livorno, Reggio Emilia, Venezia, Ostuni, Teramo. Meina, duemila abitanti, provincia di Novara, ne conta tre, in memoria degli adolescenti che, con altri tredici ebrei, vennero trucidati dalle SS il 22 e il 23 settembre del ’43 all’Hotel Meina, di proprietà di Alberto Behar, turco di origine ebrea. Nelle pietre di Roma inciampano i cittadini di molti quartieri, da Trastevere a Monti, dal Quadraro al Pigneto, da Monteverde a Prati. Succede, pur suonando assurdo, che qualche cittadino, se così vogliamo chiamarlo, si senta autorizzato a divellerle, come successe il 12 gennaio del 2012 nella trasteverina via Santa Maria in Monticelli 67, la casa delle tre sorelle Spizzichino cui tornò, da Auschwitz, soltanto Settimia, morta nel 2000. Autore dell’atto di vandalismo un inquilino del palazzo di fronte. Le pietre, disse, gli davano fastidio.


Venti nel gennaio del 2015, quarantasette nell’identico mese del 2016. Tante sono le pietre deposte a Torino, dal centro storico e zone adiacenti al quartiere «bene» della Crocetta, dai quartieri operai di Borgo Dora, San Paolo, Barriera di Milano alle prime periferie di corso Regio Parco e Borgo Vittoria. Guido Vaglio, direttore del Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, museo che meriterebbe maggiore attenzione e più visitatori, evidenzia un aspetto particolare delle Stolpersteine torinesi: «La città vide una deportazione di ebrei assai inferiore rispetto a quella degli attivisti politici, o presunti tali. Ricostruire i numeri è impresa difficile, perché, da un certo momento in poi, per la deportazione si usarono gli autobus al posto dei treni, i convogli si unirono ad altri, gli smistamenti avvennero da campi diversi. Grossomodo, stando ai dati accertati, si parla di 246 ebrei contro 515 politici». C’è un ingresso quasi nascosto sotto i portici di piazza CLN, dietro via Roma, la via razionalista disegnata dall’architetto Marcello Piacentini. È l’ingresso dell’Albergo Nazionale, durante la seconda guerra mondiale sede del comando della Gestapo presieduto dall’Obersturmbannführer Hugo Kraas. Il Nazionale ha chiuso nel 2010, ma la città esoterica, per decenni, ha sussurrato di anime senza pace, incapaci di andarsene da quelle stanze in cui avevano conosciuto la ferocia senza pietà delle torture. Dall’albergo, gli arrestati venivano portati dentro Le Nuove, le carceri di Corso Vittorio Emanuele oggi dismesse. La via crucis si concludeva a Porta Nuova, la vicina stazione ferroviaria. Auschwitz attendeva gli ebrei, Mauthausen i politici. Sottolinea Vaglio «La topografia delle pietre evidenzia il tributo altissimo che gli operai pagarono agli scioperi del marzo ’43 e ’44. Era dichiaratamente uno sciopero contro il regime e contro la guerra. Il momento pubblico di quest’anno è stato dedicato non a caso a Luigi Nada, operaio delle Ferriere, che arrivato nel campo tentò la fuga e venne ucciso». Nada, classe 1910, morì a Gusen, Linz, nel 1944. La pietra che lo ricorda è in Strada Comunale Bertolla 9b, allora campagna distante da Torino. Sul fronte della persecuzione razziale, la storia della famiglia Colombo, negozio di tessuti in piazza Castello 161, fa emergere una figura di cui il nazifascismo si servì a piene mani, il delatore. Dopo la promulgazione delle leggi che vietavano di fatto agli ebrei ogni attività, i Colombo intestarono il negozio a un loro dipendente, che qualche giorno dopo li chiamò con la scusa di chiarimenti lavorativi. Benvenuto, Enrico e Mario trovarono le SS ad attenderli. Di lì in poi, a servire la clientela, fu un nuovo titolare. Il dipendente.


Il progetto delle Pietre d’Inciampo, promosso, oltre che dal Museo, da Goethe Institut, Comunità Ebraica di Torino e Aned, l’associazione degli ex deportati, coinvolge una decina di scuole medie e superiori. Ancora Vaglio: «Una classe lavora proprio sulla vicenda dei Colombo, e i ragazzi hanno preso atto con un certo stupore della delazione come strumento per attuare le persecuzioni. Forse le nuove generazioni non sono ancora del tutto immuni dalla falsa convinzione circolata per molto tempo che siano stati i tedeschi cattivi a fare tutto». Un’altra pietra significativa si incontra in via San Domenico zero, sul sagrato della chiesa medioevale. Da lì fu prelevato don Giuseppe Girotti, morto a Dachau, dopo una spiata che lo accusava di accogliere i partigiani feriti e di nascondere gli ebrei. Prima delle pietre, esisteva, secondo Vaglio, una coscienza collettiva del prezzo pagato da Torino in termini di vittime e in nome della libertà? «Siamo in una fase particolarmente delicata di passaggio dalla memoria alla storia. La generazione dei testimoni diretti si sta esaurendo, le giovani generazioni vivono queste vicende come ormai lontane. Tutto è andato affievolendosi, affidato al ricordo ufficiale di più di trecento lapidi. Pezzi di muro che, però, quasi nessuno nota. La mappa delle Pietre d’Inciampo è nata e si sta ampliando grazie alle famiglie dei deportati, innesca un meccanismo di ricerca, fa riemergere lettere e documenti, porta a tracciare biografie di persone prima sconosciute». Perché chiedere una pietra settant’anni dopo? La risposta, forse, sta nel semplice desiderio di poter sostare in preghiera, pensare, sentirsi uniti a chi una tomba non l’ha mai avuta. Le pietre, nella loro forma e nella loro idea, non fanno distinzioni di ceto, non classificano il valore dei meriti. Ma sanno suscitare emozioni a dispetto del lungo tempo trascorso? «Emozionarsi, commuoversi, è naturale da parte dei parenti delle vittime. Analoga cosa avviene nei ragazzi delle scuole. Se, da un lato, penso sia un rischio accostarsi a una materia così delicata puntando troppo sulle emozioni, dall’altro venirne coinvolti, ricavandone un testo, uno spettacolo, un video, è un fatto sicuramente positivo». La Pietra d’Inciampo racconta, chiede che non si dimentichi chi ha creduto che un futuro fosse possibile. La Pietra d’Inciampo unisce, o almeno prova a farlo in questo nostro Paese eternamente disunito.