L’intrusa si chiama Maria (Valentina Vannino), è poco più che una ragazzina, spavalda per non essere spaventata, secca nei suoi silenzi, decisa fino all’arroganza nei gesti. Ha due figli, uno neonato, l’altra Rita (Martina Abbate) che è quasi una sorellina minore. Il marito è un camorrista, di quelli che la gente del quartiere quando la vede gli manda i saluti, e la bombola del gas a lei non la fa pagare. Però ora è in galera, lo hanno arrestato nei giardini del centro dove la donna aveva trovato riparo. La Masseria, questo il nome dell’associazione, è diretta da Giovanna (Raffaella Giordano), i bambini del quartiere ci vanno dopo la scuola per sfuggire la strada, la violenza, le «tentazioni» della camorra. Giovanna si trova così davanti a una scelta: accogliere Maria, oppure piegarsi e cacciarla perché questo vogliono le madri del quartiere, il preside e gli insegnanti della scuola senza la quale la Masseria sarebbe costretta a chiudere. È su questo dilemma morale che si fonda il nuovo film di Leonardo Di Costanzo, L’intrusa, in sala il 28 settembre. Una materia complessa che il regista napoletano (nato a Ischia) al secondo lungometraggio dopo il folgorante esordio con L’intervallo, trasforma in narrazione lasciando fuori dalla porta gli stereotipi della «napoletanità» presenti e passati. Pure se si parla di camorra, se siamo nella periferia del capoluogo partenopeo, se ciascuno dei personaggi si porta dietro un’esperienza di questo. Ma è così che la realtà deflagra con forza, senza eroismi né fascinazioni.

 

 

«L’intrusa» si confronta con Napoli, e con il suo immaginario, ma come già nel precedente «L’intervallo» su un terreno obliquo, respingendone quelle caratteristiche, presenti e passate divenute stereotipi narrativi. In un momento in cui la «napoletanità» sembra essere un genere nel cinema italiano, quali sono le questioni che ti poni da regista?
Ho girato tutti i miei film a Napoli, i documentari – A scuola (2002), Odessa (2006, coregia di Bruno Oliviero,ndr) – e gli interrogativi erano gli stessi. In questi giorni parlando di Rossellini mi hanno chiesto cosa dei suoi film ha lasciato più traccia nel mio lavoro. C’è una sequenza di Viaggio in Italia che è stata assolutamente formativa per me, quando Ingrid Bergman passa per Napoli, e in un lungo camera-car guarda la città attraverso il vetro del finestrino. Raccontare questa realtà, Napoli, è sempre significato chiedermi quale vetro mettere. In L’ intrusa il vetro è il luogo, era lo stesso in L’intervallo – ma vale anche per i documentari se ci pensi – e per questo dico che tra i due film c’è una continuità. Solo che nell’Intervallo era più semplice, si trattava di ricreare un universo di finzione nei giardini, nei corridoi di un posto quasi segreto la cui natura stessa suggeriva un distacco dalla realtà. Stavolta le cose sono un po’ più complicate: intorno allo spazio della Masseria, l’associazione della protagonista, vedi il quartiere, i palazzoni… Per questo ho utilizzato i disegni che suggeriscono un altrove di finzione in cui i palazzi diventano quasi delle quinte teatrali. Napoli dunque è presente in tutti i miei film ma sempre «a latere», non mi piace l’idea di farmi mangiare dalla città e dall’immaginario che lei per prima asseconda.

 

 

L’esterno rimane fuori dal cancello ma vi entra coi suoi conflitti: le madri del quartiere che non vogliono la moglie del boss , il preside della scuola, le frasi dei bambini che si portano dietro vicende familiari di carcere o di camorra… Quale è stato il punto di partenza per arrivare a quel «vetro» di cui avevi bisogno?
Ciò che fonda l’azione è un dilemma morale, la scelta che deve compiere il personaggio di Giovanna, la protagonista, che è una materia della tragedia classica. Il suo lavoro punta a trasformare le situazioni, e perciò non le basta offrire delle alternative a chi già le cerca, come le madri dei ragazzini che frequentano il centro, vuole togliere persone e terreno alla camorra, come potrebbe essere con Maria e i suoi figli, ma non le è permesso dagli altri. Tutto quanto entra dell’esterno riguarda il funzionamento di quel luogo e del gruppo di persone che ne fa parte. Non ci sono mai accenni a principi generali, a parte qualche inquadratura la città viene solo evocata in modo da far funzionare il fuoricampo.

 

 

Diresti che l’esperienza di Giovanna è una sconfitta?
In un certo senso sì ma se guardi il quotidiano di chi lavora nell’associazionismo è costellato di sconfitte che poi sono parte del lavoro stesso. La dimensione delle associazioni mi ricorda molto l’impegno politico negli anni ’70; i gruppi erano divisi anche profondamente tra loro ma davano l’impressione di un’unica galassia con in comune il desiderio di agire sulla realtà.

 

 

Hai voluto, come in «L’intervallo», attori non professionisti. È anche questa una scelta che riguarda il tuo rapporto con la realtà del film?
Ho l’impressione che i miei universi siano molto delicati, non è facile ricollocarvi una faccia e un corpo che si portano dietro un immaginario, pure se ho voglia di lavorare con attori professionisti in futuro. Nel film ci sono bambini, adulti, un professionista in quelle dinamiche avrebbe suonato un’altra canzone. Per il ruolo di Giovanna avevo in mente da subito un’attrice del teatro italiano degli anni ’70 o ’80 che fosse disponibile a un lungo lavoro di preparazione. Ho trovato Raffaella Giordano, che è una danzatrice e una coreografa; era a sua volta in difficoltà, doveva basarsi sulla parola e trattenere il gesto, usare la fisicità a cui era abituata in sottrazione. Con le altre abbiamo fatto un laboratorio che era un po’ come le prove a teatro, i ruoli li ho assegnati alla fine.

 

 

Però tutto è messo in scena, la verità è quella della finzione.
È fondamentale, e io mi sento meglio, per questo ho smesso di fare i documentari, non permettevano più, almeno a me, la necessaria chiarezza. Nel film ogni scena è stata ripetuta e scritta prima, gli attori stanno recitando e sono pagati per questo. Anche se scelgo persone vicine a quel mondo, ciò di cui si parla non le riguarda e non le mette in pericolo: sono dentro un altro corpo, nessuno si sente spiato, preso in ostaggio. A questo ci sono arrivato dal documentario, oltre a Rossellini un altro regista molto importante nella mia formazione è stato Jean Rouch, che in tutta la sua carriera ha continuato a interrogare le forme cinematografiche. E il documentario mi ha insegnato anche a rettificare il tiro del progetto iniziale, a adeguarmi al corpo degli attori, a quanto accade sul set. Sono felice di essere riuscito a piegare una macchina enorme come era quella del film alle esigenze della regia.

 

 

Cosa avevi in testa all’inizio, prima cioè delle riprese?
Volevo fare un film sulla parola, il cinema per me è anche questo oltre ai corpi in movimento. Durante il casting per la parte di Maria ascoltando le giovani donne che si presentavano mi sono reso conto che la nostra storia, che a sua volta mi era stata suggerita da una vicenda di cronaca, somigliava a tutte le loro. Nella prima stesura della sceneggiatura c’erano molte parole, una storia così comune per me rimandava alla tragedia antica, e come nell’agorà del teatro greco ciascuno doveva declinare la sua posizione. Man mano abbiamo asciugato, c’era il rischio di essere didascalici. Io in testa avevo sempre Antigone, ma la fase iniziale ci ha permesso di avere più chiaro il ruolo di ogni personaggio.

 

 

La formazione è molto importante nel tuo lavoro, hai insegnato agli Atelier Varan di Parigi, oggi segui i progetti di «In Progress», il workshop di sviluppo a Milano, del laboratorio di FilmUp a Ponticelli.
Non si tratta di trasmettere un sapere ma di accompagnare persone che stanno portando avanti un progetto. Per questo non separo la formazione dalla regia. Io intervengo come coach, è il metodo che ho imparato ai Varan, dove si lavora spesso nei paesi in via di sviluppo. L’impianto pedagogico è molto organizzato ma in ogni realtà si cerca sempre di intercettare i loro riferimenti e di costruire un dialogo piuttosto che imporre una modalità all’occidentale – l’obiettivo dei Varan era anche di contrastare il colonialismo culturale. Lo stesso cerco di fare qui: provo a capire che tipo di film i ragazzi possono fare, qual è il loro desiderio, e gli sto accanto per evitare che prendano strade senza uscita. Tutto questo mi porta a interrogarmi molto sulle forme del cinema, mi aiuta a pensare a me stesso.