Circa 50 aziende italiane hanno preso parte domenica a Ramallah al Joint Business Forum tra Italia e Autorità nazionale palestinese. Presente anche la viceministra italiana degli esteri Marina Sereni alla quale abbiamo rivolto alcune domande sulla politica italiana e dell’Ue verso Israele e Palestinesi.

 

 

Lei ha dichiarato che aumentando la capacità delle imprese palestinesi, l’Italia indirettamente contribuisce ad accrescere la possibilità di riprendere il negoziato israelo-palestinese e di ragionare sulla pace e sui Due Stati. A onor del vero non capisco come.

 

Domani (ieri per chi legge) i nostri giovani imprenditori saranno in Israele, nell’idea di impostare partnership con gli imprenditori palestinesi e anche con quelli israeliani. Iniziative people to people, come questa, possono senz’altro creare prospettive di lavoro per i giovani e di sviluppo economico per gli imprenditori in Palestina. In un momento in cui non s’intravede una ripresa del negoziato, la diplomazia economica può essere uno strumento per costruire un clima di fiducia. Più in generale, può costituire una spinta alla ripresa di un processo negoziale.

 

 

Però sono due situazioni molto diverse. Un imprenditore israeliano può muoversi liberamente sul mercato, cosa che non può fare l’imprenditore palestinese soggetto a molte restrizioni (dall’occupazione militare).

 

Guardiamo all’iniziativa del Joint Business Forum italo-palestinese. Siamo alla terza edizione di un evento che arricchisce la cooperazione italiana con i palestinesi. Una cooperazione rivolta alla società civile ma che guarda anche a un settore privato piuttosto vivace. Ho notato un grande attivismo da parte degli imprenditori palestinesi e una anche una grande spinta positiva nel discorso del primo ministro dell’Anp, Mohammed Shttayeh, che ha elencato molto bene le ragioni per cui un imprenditore italiano dovrebbe scommettere su progetti e start up nei territori palestinesi.

 

 

Lei fa riferimento ai Due Stati, Israele e Palestina, ma nella realtà concreta le cose non vanno in quella direzione.L’Amministrazione Trump con mosse unilaterali ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, il Golan siriano come parte dello Stato di Israele, di recente ha definito non più illegali le colonie israeliane nei territori palestinesi. In più abbiamo un primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, che vuole l’annessione di larghe porzioni della Cisgiordania a Israele. Di fronte a questo la diplomazia economica non serve a molto.

 

Italiani ed europei continuano a sostenere la soluzione Due Stati per Due Popoli e a ritenere illegali gli insediamenti. Usa e Europa presentano punti di vista differenti, ma come Ue manteniamo una volontà precisa. E come italiani lavoreremo con i partner europei, non solo perché la posizione dell’Unione non cambi ma anche per aprire un confronto e un dialogo con Washington. Gli Stati Uniti hanno presentato un piano economico descrivendolo come neutro ma che in presenza di un’occupazione dei territori palestinesi non sempre è semplice considerare tale. Gli Usa non hanno ancora reso noto il piano politico e noi siamo pronti a discuterlo quando avverrà. Nel campo palestinese c’è il tema della riconciliazione tra Fatah e Hamas e quello di nuove elezioni. In ogni caso, non vi è alternativa alla posizione europea. E anche se tra israeliani e palestinesi non c’è al momento alcun canale aperto, il suo governo italiano ritiene importante essere qui a sostenere una iniziativa del settore economico privato, perché rappresenta anche un segnale politico.

 

 

Un segnale che i palestinesi si attendono è il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte del governo italiano. Avverrà?

 

Non siamo contrari al riconoscimento dello Stato di Palestina, ma è un gesto che andrebbe inquadrato nell’ambito della riapertura del processo politico.

 

 

Israele contesta la recente sentenza europea che stabilisce una etichettatura diversa dal “Made in Israel” per i prodotti delle colonie israeliane nei territori palestinesi diretti in Europa. Quanto è ferma questa posizione?

 

Ci sono posizioni diverse. Certamente quella sentenza è coerente con la politica che l’Europa fa nei confronti dei suoi consumatori, di trasparenza sull’origine dei prodotti.

 

 

Perciò la Cisgiordania non è un territorio israeliano ma un territorio occupato.

 

C’è una differenza tra i territori occupati e la parte dei confini pre-67.

 

 

Secondo Israele non sono territori occupati ma contesi.

 

Non è questa la linea dell’Europa e dell’Italia.

 

 

Il mese scorso, durante l’ultima escalation militare tra Israele e Gaza, diversi leader politici e personalità europei hanno espresso solidarietà allo Stato ebraico soggetto ai lanci di razzi palestinesi verso i centri abitati israeliani. Non è accaduto lo stesso nel caso dei bombardamenti israeliani su Gaza. Eppure ci sono state vittime civili palestinesi, nove persone di una stessa famiglia sono rimaste uccise in quello che Israele ha descritto come un “errore”. Significa che per gli europei le vite dei palestinesi valgono meno?

 

Ovviamente no. I razzi da Gaza contro Israele sono comunque ingiustificabili, così come crediamo che sia stato giusto lavorare per un rapido cessate-il-fuoco. Merito delle Nazioni Unite e dell’Egitto che sono intervenuti per evitare una escalation. Le vittime civili sono tutte uguali e sono tutte ingiustificabili. La situazione di Gaza ci ricorda che il conflitto mediorientale è ancora aperto. La comunità internazionale, tra nuove crisi e i nuovi conflitti vicini a noi, deve trovare il tempo di occuparsi di Medio oriente.

 

 

Intanto Gaza resta sotto embargo israeliano, e anche egiziano, da ben 12 anni. Israele spiega la sua linea con motivazioni di sicurezza ma a pagarne le conseguenze sono oltre due milioni di civili palestinesi. E le condizioni di vita, lo dicono l’Onu e altre istituzioni internazionali, si sono ulteriormente aggravate a Gaza.

 

C’è una emergenza umanitaria che va affrontata e la cooperazione italiana è infatti attiva a Gaza, le cui risorse passano sempre attraverso le organizzazioni della società civile. Il blocco non risolve i problemi di sicurezza e provoca l’aumento della povertà e della disoccupazione. Abbiamo molte persone, tra cui tantissimi giovani, che pur essendo in grado di costruirsi un futuro non possono farlo. Con occhio lungimirante, Israele dovrebbe superare quel blocco.

 

 

Questa lungimiranza a suo avviso deve includere anche un atteggiamento diverso nei confronti del presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen), che pur essendo moderato è stato isolato e molto preso di mira dagli ultimi governi israeliani.

 

Spero che Israele trovi presto un governo, con tutto ciò che può derivare. Nel campo palestinese va affrontata la questione delle elezioni. Il fatto che a chiederle sia stato lo stesso presidente palestinese è un punto importante. Sono ormai più di dieci anni che non si svolgono elezioni, c’è una intera generazione che non ha neanche memoria dell’epoca degli accordi di pace del 1993. L’odierno assetto è figlio di una stagione superata, che non c’è più. Quindi nuove elezioni a Gaza, in Cisgiordania e possibilmente a Gerusalemme Est sono un punto che serve prima di tutto ai palestinesi.

 

 

Quindi l’Europa, l’Italia, accetterebbero ogni risultato, anche se le vincesse di nuovo Hamas? Nel 2006 non è andata così.

 

L’importante è che si facciamo le elezioni libere, con regole chiare e con osservatori. Penso però che il tema non sia questo ma se si possano fare le elezioni.