Il jobs act di Matteo Renzi? «Più che un piano per il lavoro, è un indice di titoli, per lo più condivisibili. Anche perché buona parte sono gli stessi del documento dell’assemblea del Pd del maggio 2010. Sette, per la precisione, coincidono: dall’assegno universale alla semplificazione normativa, all’agenzia federale per le politiche attive, alla legge sulla rappresentanza sindacale, alle politiche industriali alla partecipazione dei lavoratori nei cda. Aggiungo che questi titoli sono simili anche a quelli del programma del governo Letta. Ora si tratterà di capire lo svolgimento». Stefano Fassina, da martedì ex viceministro dell’economia, dopo le sue dimissioni in polemica con Renzi e dopo una battutaccia – «Chi?» – ormai diventata un tormentone virale sul web. Partiamo dal «sommarione», come lo chiama lo stesso segretario.

Se il jobs act ricalca i titoli di quel documento del Pd, vuol dire che il Pd non ne ha realizzato nessuno.

Aspetti. Sono titoli utili. Ma ne mancano alcuni decisivi. La questione del lavoro non si affronta solo sul piano giuslavoristico o di economia del lavoro, ma su una dimensione macroeconomica. La condizione per creare lavoro è l’innalzamento del livello dell’attività produttiva e della domanda aggregata, come ha scritto Claudio Gnesutta sul manifesto dopo l’appello «dei 15» (Manifesto dei 15, sul manifesto del 22 dicembre, ndr). E questo, nell’indice, non c’è. Senza una radicale correzione della rotta mercantilista dominante nell’eurozona non si crea lavoro, anzi la situazione tenderà ad aggravarsi. Lo diciamo da tempo. Aggiungo anche un tema cruciale, ne parla Pierre Carniti nel suo ultimo ’La risacca’: la redistribuzione del tempo di lavoro. È decisiva per evitare che una fascia sempre più larga di persone venga emarginata dal lavoro e quindi dalla cittadinanza. Anche nello scenario più ottimistico, la ripresa sarà inadeguata a riassorbire la disoccupazione.

Sull’Europa Renzi sembra aver ascoltato la sinistra Pd. Oggi propone di sforare i parametri.

È certo un’evoluzione passare dall’agenda Monti a una riflessione critica sul 3 per cento. Ma il problema non è chiedere uno sconto per l’Italia. È la rotta che non va, e non va per tutti. È la rotta del Titanic. Non è un problema di deficit, ma di Unione bancaria, di eurobond per gli investimenti.

Il governo di cui lei ha fatto parte per 8 mesi vuole cambiare rotta?

È stato un punto di discussione. Letta negli ultimi mesi ha evidenziato la necessità di una correzione di rotta. La presidenza della Ue è il traguardo in cui misurare i risultati. Ci sono enormi difficoltà, ed è cocente la delusione per le scelte della Spd, tutte concentrate sul versante interno lasciando a Merkel e Schauble le politiche dell’eurozona. Questo rende inevitabile un piano B per evitare che la spirale recessione-disoccupazione-aumento del debito pubblico si traduca in una pericolosa involuzione democratica trainata dai populisti anti-euro.

Quale piano B?

Rivedere gli impegni sottoscritti dall’Italia alla luce dei risultati della nostra presidenza.

Anche Renzi la pensa così?

Ne parleremo in direzione e nei gruppi quando affronteremo il tema del lavoro. Che è inscindibile dalla radicale correzione della politica macroeconomica.

Intanto anche Landini, della Fiom, e Camusso, della Cgil, sono interessati a discutere il jobs act.

Hanno un atteggiamento laico e pragmatico. Sui titoli non si può che essere aperti. L’interlocuzione vera avverrà nello svolgimento di quei titoli.

Vuole fare il leader della minoranza Pd, come dicono i renziani? O ridurre la sinistra a una corrente, come dicono i giovani turchi?

Non mi ha mai appassionato essere minoranza. Il leader c’è, è Cuperlo. Voglio contribuire a dare al Pd una cultura politica autonoma e adeguata alle sfide inedite che abbiamo di fronte.

I giovani turchi criticano le sue dimissioni nate da una battuta di Renzi.

Abbiamo culture politiche diverse. Né intendo chiudere nessuno in una ridotta, tutt’altro. Le battute fanno parte delle stile personale. Ma il messaggio che contengono conta. Sono andato al governo per conto del Pd. Nelle ultime settimane ho notato un’ambiguità del Pd nei confronti del governo. È un problema politico e l’ho posto. Chi oggi fa il segretario del Pd può non condividere questa valutazione ma non può colpire la dignità personale e politica. Per me è insostenibile una situazione in cui c’è chi sta al governo per conto del Pd, mette la faccia su compromessi, su mediazioni che considera faticose sul piano politico e anche morale, almeno finché Berlusconi era in maggioranza; e chi invece da fuori tira le freccette. Una schizofrenia insostenibile. Una cosa è che tutto il Pd, a partire dal segretario, investe sul governo per ottenere una svolta legittima e anzi doverosa. Altro è la critica distruttiva per posizionamento preelettorale.

Il governo sarà il target delle freccette di Renzi fino al 2015?

Spero di no. Sarebbe un danno per il paese, prima che per il governo. Un Pd che si comporta come fece il Pdl di Berlusconi nei confronti del governo Monti sarebbe una sconfitta per tutti.

Ma il fatto che Renzi non voglia sentire parlare di rimpasto né di mandare al governo persone vicine a lui non prefigura proprio questo scenario?

Non lo capisco. O se lo capisco mi preoccupa. Non si tratta di riaprire il manuale Cencelli. Dobbiamo riconoscere che il Pd che ha selezionato il presidente del consiglio e la delegazione del governo è stato archiviato dal congresso. Quindi il segretario, che doverosamente chiede una svolta, dovrebbe dare un contributo operativo con i suoi uomini e le sue donne migliori.

E se Renzi invece volesse andare presto al voto?

Ripeto: c’è un’ambiguità, e va chiarita nei prossimi giorni. Il gioco del logoramento è solo un altro pericolosissimo giro della politica autoreferenziale.

Il ministro Franceschini propone un ambizioso programma di riforme: elettorale entro maggio, e per quella data due letture delle riforme istituzionali. È verosimile?

Nessuno meglio di Franceschini è in grado di valutarne la verosimiglianza.

Il ministro Saccomanni, di cui lei era vice, è nella bufera per l’ultima papera con gli insegnanti. Che succede in quel ministero?

Certe cose non passano a livello della decisione politica ma attraverso automatismi amministrativi. E quando il ministro ha avuto la consapevolezza di quanto accadeva è intervenuto per correggere l’errore.

All’economia ci vorrebbe un politico, come ha detto il renziano Nardella?

In una condizione ordinaria certamente sì. Ma è strumentale attaccare Saccomanni. Il ministro dell’economia propone, ma le scelte sono del presidente del consiglio e dei ministri.

«Fassina chi?» è diventato un tormentone. Che effetto le fa?

È un linguaggio e un atteggiamento che non aiuta a conquistare credibilità alla politica.

Con Renzi, dopo le dimissioni, vi siete sentiti?

No.

Non vuole fare il leader della minoranza, non vuole organizzare una scissione. Che vuole fare?

Macché scissione, basta con questa storia.. In questi giorni ho anche rifiutato gli inviti in tv per evitare di sputtanare il mio partito. Farò il parlamentare della commissione bilancio della camera. Le forze progressiste europee vivono una fase difficilissima. Abbiamo di fronte a un passaggio storico. Dedicherò, insieme ad altri, le mie energie alla ricostruzione della cultura politica del Pd.