La riforma Fornero delle pensioni non ha impattato soltanto nella vita delle persone che dalla sera alla mattina hanno visto allungare di 5 o 6 anni il tempo di lavoro. Da quel 5 dicembre del 2011 è cambiata totalmente la percezione del tema previdenziale. Elsa Fornero ha impersonificato l’idea che le pensioni fossero un costo sociale insostenibile e che per questo andassero per forza tagliate, facendo passare tutti i pensionati – senza alcuna distinzione – per privilegiati.
Fu un’operazione politica che ha inculcato nella percezione generale l’austerità come modus operandi di qualsiasi governo. Ora che la pandemia ha ribaltato il quadro e che l’Unione europea spinge ogni paese a spendere per riprendersi dalla crisi, solo le pensioni sembrano rimanere fuori dalla nuova onda keynesiana che sta colpendo perfino i custodi del rigore nord europei.
Dunque fra sette mesi, finito il flop Quota 100, tornerà tutta la riforma Fornero. E in più scadranno anche tutte le altre misure collaterali – Ape social, Opzione donna, contratto di espansione – inventate per attuarne i durissimi effetti a partire dagli esodati. Senza interventi legislativi, dal primo gennaio 2022 la Fornero con annessa austerità e rigidità previdenziale ritorneranno in toto, alla faccia di chi – Salvini – aveva promesso di abolirla.
Per questo i sindacati sono tornati alla carica e chiedono a gran voce al ministro Orlando di convocarli per aprire il tavolo e ridare flessibilità al sistema. L’anima tecnocratica del governo Draghi è contraria a qualsiasi flessibilità e propone solo il ripristino di Ape social e Opzione donna.
Si tratta di interventi assai limitati sia dal punto di vista sociale che economico. Se Opzione donna – la possibilità di anticipare la pensione per le donne che hanno 35 anni di contributi e 59 anni di età – è un ricalcolo dell’assegno con metodo interamente contributivo con taglio medio del 30%; i numeri dell’Inps sull’Ape social ne confermano la difficoltà ad accedervi. La norma introdotta dal governo Gentiloni prevede l’anticipo pensionistico per le categorie più in difficoltà, lavoratori precoci e gravosi. Ma dal 2017-2020 l’Inps certifica come a fare domande siano stati 15.535 addetti con mansioni gravose (operai alla catena e fonderia, edili, macchinisti, maestre del nido, addette alle pulizie, pescatori, facchini, badanti) ma solo 4.347 se la sono vista accettare: la percentuale delle domande accolte è solo del 28%; mentre per i lavoratori precoci (chi aveva 12 mesi di contributi prima dei 19 anni di età ed è disoccupato, invalido o fa lavori gravosi) le domande accettate sono state 16.355 su 44.473, pari al 36%. «I paletti inseriti nella normativa sono stati troppo stretti – spiega Enzo Cigna, responsabile dell’ufficio politiche previdenziali della Cgil – si tratta di lavoratori realmente bisognosi di andare in pensione che si rivolgono a noi ma si vedono in gran parte respinte le domande».
Ecco perché invece serve inserire un principio di flessibilità universale che poi può essere allargato per le categorie più bisognose. La proposta della piattaforma unitaria di Cgil, Cisl e Uil è l’uscita dai 62 anni di età senza penalizzazioni. E a chi obietta un costo alto per le casse dello stato – sebbene stime precise ancora non ce ne siano – i sindacati confederali rispondono che si possono utilizzare i 4,6 miliardi risparmiati da Quota 100: in realtà erano 7 ma 3,4 sono già stati rimessi per limitare il deficit con una variazione di bilancio per minor costi da parte dell’Inps. Dall’altra parte sta la proposta del presidente dell’Inps Pasquale Tridico: uscita a 62 anni ma con solo la parte contributiva dell’assegno fino ai 67 anni e semplice anticipo di spesa senza impatti sui conti statali. Una proposta «inaccettabile» per i sindacati che stimano una pensione più dimezzata per chi decidesse di uscire a 62 anni.
Una soluzione intermedia potrebbe essere ripescare la proposta Damiano-Baretta-Gnecchi del 2013. L’ex ministro del lavoro del Pd, l’ex sottosegretario al Mef e la attuale vicepresidente dell’Inps proposero l’uscita anticipata con penalizzazione del 2% anno sulla parte retributiva dell’assegno: a 62 anni si tratterebbe dell’8% visto che a quel tempo si andava in pensione a 66 anni. Un compromesso che potrebbe mettere tutti d’accordo. O almeno far partire una trattativa.