«Il primo di luglio prossimo andrò all’estero, in Italia, dove resterò un po’ di tempo», annunciava Dickens nel maggio del 1844 all’amico Macvey Napier. Il tour in Italia doveva coincidere per Dickens con una vacanza dal mestiere di scrittore, con una pausa «tattica» che permettesse di riabilitare la reputazione letteraria incrinata dopo il disastroso calo di vendite del romanzo Martin Chuzzlewit. Durante il soggiorno italiano, in realtà, l’attrezzatura dello scrittore non sarebbe rimasta per sempre in valigia: «Ti manderò le mie descrizioni di tanto in tanto – aveva promesso Dickens al futuro biografo John Forster prima della partenza – e tu potrai giudicare se se ne potrà ricavare o meno un libro nuovo ed attraente».

Oltre a costituire un primo banco di prova per un’opera ancora a venire, le Lettere dallItalia di Dickens testimoniano la verve di una scrittura epistolare capace di insinuarsi nell’ozio del turista «sradicato da Londra» in maniera più agile e disinvolta rispetto alla narrazione romanzesca. Eppure, per quanto un libro di viaggi comportasse un impegno «minimo» e di certo vantaggioso per rimpinguare le rendite finanziarie, poco prima del rientro in patria Dickens non esitò a manifestare il proprio imbarazzo sulle sue «esperienze» italiane: «non riesco minimamente a trovare un modo d’impiego che mi soddisfi – scrisse a Forster nel giugno del 1845 – e tuttavia sono perfettamente d’accordo con te che in qualche modo dovrei pur decidermi ad usarle».
L’incertezza non è da sottovalutare. Per chi come Dickens andasse in cerca di una mossa strategica, un libro sull’Italia poteva rappresentare un passo falso. Già con il fervore critico-sociologico delle American Notes – ricavate nel 1842 da un deludente tour negli Stati Uniti, e utilizzate come canovaccio per le «esperienze» americane di Martin Chuzzlewit – Dickens aveva suscitato il disappunto di «certi intenditori». Al precedente insuccesso, andava poi ad aggiungersi il fatto che con un ulteriore resoconto di viaggi Dickens avrebbe rimesso piede in un terreno per lui rischioso, regolato da leggi e contratti molto più vincolanti rispetto a quelli in vigore nell’universo della finzione. Mentre in un romanzo come la Bottega dellantiquario il narratore aveva infatti dichiarato di riuscire a innalzarsi assieme «all’amico lettore», fino a fargli valicare lo spazio e il tempo alla stregua di un «intrepido aeronauta», con la letteratura di viaggio Dickens avrebbe dovuto sottostare alle restrizioni del regime di «fattualità», che include – secondo Gérard Genette – ogni forma di «universale reportage». In quest’ambito, il viaggiatore non sarebbe stato libero di infrangere nelle sue testimonianze i parametri delle coordinate spazio-temporali, né di manovrare a piacimento il destino dei personaggi incontrati sul suo percorso: «L’interesse di libri come questi» – avevano ammesso anche le American Notes – non consiste nel «narrare avventure mirabolanti», ma «nella diversità di impressioni che menti differenti traggono dalle medesime cose».

Quando entriamo nel meraviglioso universo narrativo di Dickens – ha osservato Mario Lavagetto – «ogni esercizio di contabilità spicciola è destinato al fallimento»: le regole «non contano», mentre i patti possono venire «allegramente stracciati» in virtù di una «libertà illimitata». Non c’è dunque da stupirsi se una volta rientrato a Londra, Dickens si affrettò a farsi restituire le lettere inviate dall’Italia, per assemblare sulla loro falsariga le sue Pictures of Italy. Con questo libro che vide la luce nel maggio del 1846, e che possiamo oggi rileggere sotto il titolo Impressioni dItalia, il romanziere si impegnava a fabbricare un itinerario incurante dei limiti di «fattualità», dove l’Italia, in maniera del tutto spregiudicata, finisce per assumere i contorni di un miraggio degno delle Mille e una notte.

Nessuna sorpresa se Dickens, consapevole di avventurarsi in un territorio minaccioso, ci accoglie all’inizio del viaggio con un «passaporto del lettore», che gli consente innanzitutto di presentare un tragitto concepito non come un insieme di «studi» sul governo (o lo «sgoverno») del paese, né come una sequela di lezioni di storia dell’arte italiana, bensì come una serie di «tenui immagini» e «semplici ombre sull’acqua». Non c’è tempo di replicare che una simile polizza assicurativa serve a mettersi al riparo dall’attitudine critico-sociologica in agguato nelle American Notes: ce lo impedisce un narratore che, pur di trascinarci sulla sua carrozza in partenza da Parigi e diretta a Genova, non esita ad alternare il racconto al passato remoto con allocuzioni, ammiccamenti e duraturi passaggi al presente storico, necessari ad alleviare gli inconvenienti e gli scossoni della sua vettura.

Non c’è del resto bisogno di varcare la frontiera delle Alpi per accorgerci che siamo saliti su un mezzo molto più spericolato del tappeto volante di Aladino. Animata dalle prodezze del «bravo corriere» – un formidabile factotum che d’ora in poi ci farà da scorta con la stessa energia di Figaro – la carrozza delle Impressioni dItalia attraversa la Francia per andare a schiantarsi come «un fuoco d’artificio» in una locanda tutta lazzi d’allegria. Non siamo in un «romanzo», scherza Dickens: ci troviamo piuttosto in un reame ibrido, sospeso fra memoria e immaginazione, popolato da osti, postiglioni e albergatrici che hanno la stessa servizievole consistenza di figurine di carta o marionette. Tutto il tragitto lungo la Francia – con la sporcizia delle strade di Lione, la panoramica su una Avignone «somigliantissima» alle città delle Mille e una notte e la visita alle prigioni del Palazzo dei Papi – equivale del resto a una sorta di anticamera in cui Dickens, secondo una tecnica collaudata anche nei suoi romanzi, sembra stipare alla rinfusa le immagini destinate a riaffiorare sul nostro cammino nel paese delle ombre.

Con queste premesse, solo in apparenza l’ingresso a Genova ci appare tanto «traumatico» quanto il narratore vorrebbe farci credere. L’aria che Dickens respira per qualche mese nelle stanze di Villa Bagnarello assieme alla moglie e ai figli, prima di trasferirsi nella più confortevole Villa delle Peschiere, ci risulta invece familiare. Mentre quest’ultima residenza torna a ricordarci «i palazzi incantati delle novelle orientali», la prima coincide con una «prigione rosa» che nei suoi spazi tetri e smisurati racchiude la stessa atmosfera già sofferta poche pagine avanti nelle segrete del Palazzo dei Papi. Il «trauma», semmai, arriva solo in seguito, quando Dickens ci chiede di accompagnarlo per le vie di Genova senza dimenticare a casa le sue apparecchiature ottiche da visionario.
Se abbiamo la pazienza di assecondare il vagabondaggio dello scrittore, ci troviamo ben presto nel paese del caos e dell’irregolarità, sopraffatti da una «bella confusione» dove le abitazioni si ingigantiscono come nel mondo delle meraviglie di Alice, fino a ospitare nell’ombra dei loro giardini le statue di colossi a riposo. È la terra degli spiriti che si annidano dietro le mura e i portali delle antiche costruzioni, in un’atmosfera da sogno e fantasticheria che sembra nascere, in maniera paradossale, dai detriti e dal marciume delle strade. Su tutto dominano infatti la sporcizia, il degrado e la miseria che erano stati già segnalati a suo tempo anche nel Viaggio attraverso lItalia di Smollett, ma che qui vengono ad accumularsi sulla pagina non tanto per favorire l’attitudine di denuncia documentaria, quanto per richiamare lo scenario dei bassifondi che regna in alcune novelle delle Mille e una notte.

Vale la pena di specificare che Dickens, per quanto ami dipingersi come un «cavaliere» impegnato in una «grande impresa», si mantiene scrupolosamente al di qua dell’avventura, lasciandola soltanto presagire. E se insiste nel chiamare in causa le «novelle orientali», sembra lo faccia più che altro nella speranza di suscitare fra i suoi accompagnatori il «terrore» infantile che si sprigiona – anche secondo una testimonianza parallela di Coleridge e De Quincey – dalle storie «spettrali» del paese di Aladino. Poco importa se poi nella comitiva di viaggio restano in pochi i lettori capaci di riconoscere la fisionomia dell’Italia dopo il passaggio di Dickens: «I suoi viaggi – ha osservato anche Chesterton – non sono viaggi in Italia, ma viaggi a Dickensland». E dunque risulta inutile ostinarsi a ricercare una qualche specificità territoriale in queste Impressioni, dove Avignone e Genova si confondono sotto le deformazioni di una stessa lente. Meglio risalire in carrozza e disporci a rintracciare gli elementi ossessivi depositati dal visionario sulle diverse tappe di un itinerario geografico che ormai ha solo valore di una debole ossatura di raccordo.

Il tragitto intrapreso lungo le città della via Emilia fino a Bologna, in questo senso, può apparirci come una conferma amplificata da grottesche comparse. A catalizzare l’occhio del visitatore, stavolta, non sono tanto i palazzi da sogno di un’orientaleggiante Piacenza, né gli «spettri» avvistati fra le rovine del Teatro Farnese di Parma, o tantomeno i «mostri» scolpiti sul Duomo di Modena, quanto i personaggi che infestano le vicinanze. Sembra sempre che dalle mura degli edifici debba spuntare una torma di sgherri decisa ad assaltarci, o che dietro i colonnati delle chiese si annidino frotte di mendicanti cenciosi pronti a ripeterci il loro lugubre lamento di morte.

In qualche occasione, come alla Certosa di Bologna, ci vengono incontro ciceroni e accompagnatori più disponibili ma non meno sinistri, in grado di carpire il nostro sguardo come un improbabile e demoniaco genius loci. Si tratta, in ogni caso, di brevi apparizioni che non torneranno più sui nostri passi, ma che poi, prese tutte insieme, contribuiscono a farci sentire assieme a Dickens come viandanti incalzati dal rischio di furto e di assassinio nel regno dei fantasmi.

Ormai solo i lettori che riescano a tollerare l’abuso di fantasticherie possono trattenersi a bordo della carrozza delle Impressioni, che dopo essersi lasciata alle spalle una Ferrara deserta come una «città di morti» si appresta a varcare le frontiere dell’onirico con la narrazione di un «sogno» fatto «in Italia». A chi accetti di seguire il sognatore lungo il suo percorso notturno, fra i canali e i ponteggi di una lugubre città, appaiono uno dopo l’altro una maestosa cattedrale «ricca degli ornamenti» dell’Oriente, le celle «spaventose» di un carcere di condannati a morte e una scala da «giganti» che immette in una galleria di dipinti simili a una «folla di spettri». Non c’è nessun bisogno di scomodare Freud per indovinare che dietro le deformazioni di un elementare lavoro onirico si cela la mappa di Venezia. Conviene invece registrare sul nostro taccuino di viaggio una vera e propria mania per il macabro e il funereo, che non abbandona mai l’occhio del turista, ma lo spinge a riproporci persino in sonno, su scala amplificata, una serie di ossessioni orchestrate anche in base ai copioni di un nume teatrale: «pensai che lo spirito di Shakespeare fosse fuori – ammette infatti Dickens – vagando per la città in qualche punto sulle acque».

In un monologo di Romeo e Giulietta, Mercuzio si mette a evocare il microscopico cocchio della Regina Mab, «levatrice delle fate», che con l’aiuto di «invisibili farfalle» guida un «guscio di nocciola» dalle redini «di lieve ragnatela» fin sul naso e nei «cervelli» di chi sogna. Prima che la diligenza di Dickens finisca per assomigliare troppo a un simile mezzo d’esplorazione, fermiamoci a considerare la fisionomia del narratore che nel frattempo si è risvegliato al nostro fianco, per trascinarci prima in Svizzera e poi ridiscendere verso la Toscana: nel momento in cui davanti ai marmi di Carrara sentiamo menzionare per l’ennesima volta l’ombra di Sindbad, ci accorgiamo che la nostra guida rischia di trasportarci verso orizzonti sempre più prevedibili. Si può scusare la sua tendenza a piombare in ogni momento in una «fantasmagoria» che, a suo dire, «ha tutti gli incomodi e i piaceri di una stravagante realtà»; e tuttavia non si può non riconoscere che proprio questo stato «simile all’ubriachezza» lo conduce a dar prova di una cecità sbalorditiva. Non lo interessa tutto quanto non appaghi la sua passione per un gigantismo oltre misura, o non chiami a raccolta dall’oriente torme di spettri fra prigioni, torture e scenari da tragedia shakespeariana. E se in questa prospettiva risulta deludente il capolavoro di Leonardo ammirato al Refettorio delle Grazie di Milano, e divengono quasi invisibili Piazza dei Miracoli o Piazza del Campo, sorte non migliore tocca ai familiari del narratore e al suo «bravo corriere», di cui a poco a poco si perde traccia nel corso del libro, ben prima che la vettura faccia il suo ingresso a Roma.

A chi voglia ancora accompagnare Dickens in una «città eterna» che sulle prime gli appare «simile a Londra», si aprono a questo punto almeno tre percorsi. Si può continuare a seguire il visionario in cerca di «sangue», durante i suoi andirivieni al chiaro di luna in un Colosseo abitato dai «fantasmi» dell’antica Roma, e in un «sogno di chiese» dove risuonano ancora i supplizi dei martiri. In alternativa, possiamo ammirare come l’occhio dello scrittore si mantenga sulla difensiva di un incuriosito straniamento, quando descrive i rituali di San Pietro senza lasciarsi incantare dalla pompa dei cerimoniali che anni prima avevano abbacinato Chateaubriand nel suo Viaggio in Italia. Ma possiamo anche pedinare il turista su un terreno nuovo: quello dei festeggiamenti per il carnevale romano.
È forse questa la strada più vantaggiosa, perché alla stessa manifestazione, qualche decennio più tardi, assisté Henry James, riportandone notizia nelle sue Ore italiane. Anche James, durante la sua «Vacanza romana» del 1873, indossa un paio di occhiali da artista con cui va a caccia delle scene più pittoresche; ma non appena le sue lenti riescono a catturare l’effetto della luce sulle «superfici», la realtà si affretta a mandare in pezzi l’incantesimo dei colori. Il carnevale di Roma, con le sue maschere di «orribile filo metallico» e le altre «sporche buffonerie», diventa a questi patti emblema della «profonda rottura» che a partire dall’unità d’Italia ha distrutto ogni poesia del passato. Ma mentre James, diseredato delle sue artistiche aspettative, non rinuncia nemmeno per un istante a rintracciare attraverso la scrittura il senso della decadenza di uno «stile», l’occhio di Dickens si lascia conquistare dalla spettacolare teatralità dell’evento: una volta inforcata la maschera «di fil di ferro», per lui conta soltanto «la gaia pazzia» della festa che esplode fra i cavalli in gara lungo le vie del Corso, in un tripudio di fiori, confetti e «buonumore» collettivo.
L’ultimo appuntamento a cui siamo invitati prima di lasciare Roma è una pubblica decapitazione, descritta nella sua lunga attesa per il condannato con una dovizia di dettagli e un compiacimento tali da obbligarci a una domanda. Perché tanta insistenza su spettri, prigioni e incubi di morte, immersi in una sinistra, titanica spettacolarità che travalica ogni immaginazione? Perché, in altre parole, l’Italia delle Impressioni è costretta a figurare, nella galassia di «Dickensland», come una sorta di satellite maligno infestato da ombre shakespeariane e geni delittuosi?
Può darsi che l’ossessione per le prigioni – come ha suggerito Edmund Wilson – sia da collegare a una radice autobiografica destinata a ripercuotersi su tutta l’opera di Dickens. Sappiamo che l’infanzia dello scrittore fu segnata dalla carcerazione del padre, rinchiuso per debiti nel 1824 dietro le sbarre della prigione di Marshalsea a Londra. Difficile cancellare le tracce dell’evento, che col conseguente tracollo economico costrinse il giovane Dickens a lavorare come lustrascarpe e mise a repentaglio la sua possibilità di conseguire un’educazione: «Non lo dimenticai mai più – confidò a Forster – non lo dimenticherò mai, non potrò dimenticarlo». E si comprenderebbe allora come la prigione riemerga più volte fra le pagine dei romanzi, non solo per velleità di denuncia nei confronti del sistema carcerario, ma anche per offrire una valvola di sfogo a un trauma personale che raggiunge, nella Piccola Dorrit, la consistenza e le dimensioni di un archetipo: la «società» dei viaggiatori che arrivano in Italia, affidandosi a un corriere come «debitori» in consegna alle guardie di una prigione, può essere addirittura paragonata, secondo Amy Dorrit, a un duplicato su scala «superiore» del carcere di Marshalsea.

Non è tuttavia da escludere che dietro la messa in scena delle Impressioni dItalia si celino anche ragioni squisitamente strategiche. A tratti viene il sospetto che Dickens, per scongiurare la noia da guida turistica e evitare il confronto con illustri predecessori e critici d’arte, cerchi di impiantare con tutte le sue forze sul territorio italiano lo stesso repertorio di prodigi, apparizioni e terrificanti fantasmagorie dei romanzi gotici. Non è un caso se l’arrampicata notturna verso la bocca «di fuoco» del Vesuvio, che ci aspetta dopo aver attraversato gli spettri della grottesca miseria di Napoli, si limita a ispirare brividi e orrori da parco dei divertimenti, senza raggiungere le sublimi vertigini meditative della Ginestra di Leopardi. Non è un caso nemmeno se in seguito la «triste penombra» del cortile di Palazzo Vecchio a Firenze risulta «degna del Castello di Otranto», il «bestseller» gotico di ambientazione italiana con cui Horace Walpole – secondo la testimonianza di W. S. Lewis – continuava ad affascinare in pieno Ottocento l’immaginario dei lettori europei. Attraverso le sue operazioni da visionario, Dickens non faceva che assecondare le aspettative di un pubblico per cui l’Italia, già in partenza, rappresentava la patria del mistero e dei funebri scenari a tinte fosche.

È la mossa «tattica» che Dickens ricercava. Il pianeta del romanzo gotico gravitava infatti sotto la più ampia costellazione del romance, la letteratura «commerciale» che, a detta di Northrop Frye, ancora in «epoca vittoriana» andava a contrapporsi con le sue tenebrose invenzioni all’universo del romanzo «realistico serio». Esisteva forse una strategia migliore per riavvicinare con il «minimo» sforzo la schiera dei lettori delusi, prima di tornare a incalzarli sul terreno più «realistico» di un nuovo romanzo? In attesa di sottoporre al pubblico l’avventura londinese «seria» di Dombey e figlio, che avrebbe visto la luce solo nel 1848, Dickens si impegnava per il momento a contrabbandare un’Italia da visitare e ripercorrere come una sorta di provincia letteraria del romance. E non c’è dunque bisogno che la nostra guida, in procinto di scendere dalla carrozza, prenda «affettuoso commiato» da un paese che, nonostante «tutte le miserie e gli errori», potrà forse un giorno «sorgere dalle ceneri presenti»: per Dickens l’Italia, assieme a tutte le sue prigioni e i suoi spettri, resta un fatto commerciale.