Ha un’ugola soul Luca Sapio, una passione sfrenata verso quel genere che ha fatto grandi Ray Charles, Marvin Gaye. Il talento è innegabile, lo dimostrano le tante collaborazioni con Tony Scott, Elton Dean, Eumir Deodato e un album di debutto, nel 2012 Who knows, prodotto da Thomas Tnt Brenneck, il leggendario produttore dietro al successo di icone della musica dell’anima, come Cee-lo, Mary J. Blidge, Erykah Badu, D’Angelo – che ha saputo condurre Sapio su un versante al tempo stesso elegante e sanguigno.

Sapio sa di essere un’eccezione nel panorama italiano, dove se si fa black music – vedi Zucchero – bisogna per forza di cose tener conto delle contaminazioni e più spesso di edulcorazioni nello stile. «Sì, in Italia è difficile riproporre una situazione come quella dei ’60, dove giravano artisti come gli Showmen o i Ribelli. Dagli 80 in poi si è preferito seguire una tendenza filo britannica che ha privilegiato sonorità più cupe e scure e soprattutto legate maggiormente a un’estetica piuttosto che a un contenuto sonoro». Who knows è fedele alla ricetta dei padri fondatori del soul: «La mia idea era di fare un disco che pescasse nella tradizione americana ma che proprio grazie al mio dna…italico legato ai compositori visionari di Cinecittà come Morricone, Piccioni, Umiliani, non risultasse un’operazione di retro soul. Nessuno più di Tommy poteva aiutarmi in questa operazione. Avevano un amico comune e così abbiamo iniziato a parlare. Dopo un concerto di Bradley ad Antwerop gli ho fatto ascoltare i miei demo e ascoltato il primo pezzo mi ha detto ’vieni da me con la tua band che registriamo il disco’. E così insieme ai miei partner Christian Capiozzo e Mecco Guidi mi sono ritrovato catapultato in uno studio analogico a suonare insieme a tutta la soul family di Brooklyn : i Drap Kings, Budos, Menahan Street…».

Luca segue una filosofia che si rifà – spiega – a quella di Memphis Slim, un musicista dei 60 «Non si può vivere il soul senza ave vissuto il blues. Ho aspettato tanto tempo per il mio album di debutto, la vita mi ha messo a dura prova. Ho passato l’adolescenza entrando e uscendo dagli ospedali, scoprendo sulla mia pelle l’emarginazione e la discriminazione. Esperienza che ho vissuto da adulto negli Stati uniti senza un permesso di lavoro e ritrovandomi a un passo dal farcela con un bel foglio di via. L’unico modo per esorcizzare il blues è cantarlo, raccontarlo. È questo che rende credibile un cantante piuttosto che un altro. Bisogna attraversare quella linea sottile che separa l’inferno dal quotidiano per esserlo. Il blues non è un colore, non è una pentatonica, è un buco che hai nell’anima e non si rimarginerà. Ce l’avevano i bluesmen che guadavano il Mississippi. Non sapevano che al di là del fiume le grandi città li avrebbero accolti con ancora più diffidenza e odio razziale».

Dodici canzoni dove a farla da padrone sono i suoni molto Motown, e ancor più evidente l’impronta Stax…: «Vero! Sono un fan del southern soul quello che ha le radici ben piantate nel black gospel. La Stax aveva una scuderia pazzesca di artisti, sessionman, autori. Una fabbrica incredibile di canzoni che avrebbero segnato le generazioni di lì a venire».

La scena soul degli ultimi anni – ma anche molti rapper della prima ora – cerca di riappropriarsi delle proprie radici, cercando di catturarne il particolare mood. I nuovi lavori di Jay Z e Kanye West, e ancor più i dischi recenti di John Legend e Janelle Monae sono lì a testimoniarlo: «In qualche modo è sempre stato così. Il rap si costruiva sui breakbeats dei Jb’s o sui più oscuri dischi di funk e soul. Tutti i grandi produttori di hip hop hanno delle collezioni sterminate di vinili da cui campionano breakbeats. Direi piuttosto che tutti gli artisti di cui parli hanno ampliato il loro archivio e bagaglio sonoro iniziando a rubacchiare tra le nostre produzioni di colonne sonore anni 60 e 70. Sono ambitissime! Ho visto spendere Adrian Younge centinaia di dollari per un disco di Riz Ortolani…»

Ogni sabato Luca Sapio conduce sulle frequenze di Radio 2 Latitudine Black, un viaggio sonoro intorno al mondo della musica nera…: «Diciamo che il programma è la massima espressione del mio lato nerd. Sono collezionista di vinili, temo che la mia sia una… patologia. Ho rovistato nei magazzini più luridi alla ricerca di questo o quel 45 giri. Stessa cosa per le biografie. Ho letto tutte le biografie possibili ed immaginabili del genere… da quelle ufficiali a quelle non ufficiali e da quelle dei giganti a quelle dell’ultimo dei turnisti. Quindi racconto storie e aneddoti e soprattutto, faccio sentire tantissimi artisti contemporanei legati alla tradizione afroamericana che difficilmente verrebbero passati da altre radio».