Gli studi sul mondo antico rimasero a lungo una parte della cultura anche degli amateurs: solo nel corso dell’Ottocento, vennero rivendicati come ambito quasi esclusivo di un gruppo di «tecnici», filologi e storici. Ciò era inevitabile, soprattutto nel caso di temi molto specialistici, ma creò una separatezza che, nel complesso, non ha giovato al senso della tradizione classica. Nel tempo presente, però, questa segregazione è venuta meno, e si è delineato anzi un rovesciamento: la parola esperta è, e sarà, emarginata, confinata a cerchie forse sempre più esperte, certo sempre più ristrette. Quando si tratta dunque di autori o intorno a temi del mondo classico, collocati sul limitare e affacciati verso altri ambiti, una forte libertà della riflessione giova, e appare necessaria, soprattutto se consente che il dibattito sia più influente.

Lo si vede bene nel caso della democrazia greca, e dei testi teorici o storici che ne ragionano: oggetto di studio da parte dei tecnici della «scienza dell’antichità», questi materiali sono indagati, con strumenti e finalità differenti, anche dai pensatori della politica.

Da questa prospettiva origina il volume di Yves Mény Democrazia: l’eredità politica greca Miti – Potere – Istituzioni (a cura di Dino Piovan, trad. di V. Cavagnoli, Edizioni Ariele, pp. 244, € 20,00). L’autore parla da scienziato della politica e studioso di tendenze della contemporaneità: perciò il suo sguardo verso l’antichità greca, pur in dialogo con la ricerca recente, può alleggerire il riferimento, talora gravoso, alle tecnicalità storiografiche. Anzi, Mény apre a osservazioni generali, utili per un pubblico largo, non ai filologi della grecità. A essi però spetta il compito di rilevare qualche problema della traduzione: chi è Patrocle? capirà il lettore italiano chi sono gli «enarchi» (ovvero i funzionari formati nell’École Nationale d’Administration, da poco soppressa da Macron)?

Il libro è aperto da un lucido saggio di Piovan, che segnala come i legami odierni con il pensiero politico classico siano «tutt’altro che lineari». Il paradigma della politica antica appare «multiforme e duttile», e la storia della ricezione del modello antico ingloba il riflesso forte di questioni contemporanee. In così vasta materia, Mény evita esposizioni sistematiche e seleziona alcuni concetti-chiave, che aggregano informazione e riflessione (il cittadino, le forme del potere). Vi si affiancano analisi particolari su concetti istituzionali («democrazia», «oligarchia») e poi su temi più tecnici (il sorteggio, l’ostracismo, eccetera). Il taglio non è antiquario, né manualistico, sì in costante rinvio all’esperienza presente: basterebbe la sezione in cui si introduce, a discussione del ruolo personale in politica, l’aggettivo «jupiteriano» (pp. 148 ss.). Il termine (classico, ma arduo da tradurre con efficacia) è in uso nella politica francese per designare lo stile di governo monarchico e insieme seduttivo adottato da taluni presidenti. In qualche caso, per esempio, sulla misoginia antica, gli affondi producono esiti meno convincenti, perché aderiscono a idées recues che un discorso più tecnico tenderebbe a problematizzare e discutere, o perché vi affiora, stranamente, qualche residuo di «miracolo greco».

A parte talune aperture sociologiche (alla Foucault), altri sviluppi in tema di «controllo» risultano non sempre memorabili, o francamente digressivi (sul labirinto, Venezia e il GPS: 129 ss.). Per contro, le riflessioni sopra l’eredità dei modelli classici nella politica moderna sono assai efficaci: anche perché abbordate non con bisogno di scrupolo metodico e ortodossia storicistica, bensì con sguardo rivolto alla produttività reale di un’idea: lo si vede per esempio nell’accostamento tra l’idea greca di autonomia e il mito statunitense dell’autogoverno. Per Mény conta sopra tutto la «capacità dei Greci di anticipare principi giuridici che la società occidentali premoderne riusciranno a introdurre solo lentamente e a perfezionare nei secoli». Ecco dunque che persino le scene «politiche» presenti in Omero sono lette come testi fondativi di schemi democratici successivi: la persuasione attraverso la parola, la partecipazione al dibattito come origine della decisione, e la competizione, anche dura (171). Il libro non nasconde però, anzi rileva con chiarezza, che il modo in cui si costruì nel XIX secolo il «mito» della democrazia greca (ossia ateniese!) come modello perfetto presenta notevoli ambiguità.

Mény illustra anche le criticità che proprio il richiamo alla Grecia antica ha comportato nella costruzione dell’Unione europea (179 s.), le cui istituzioni soffrirebbero, con parole di Giuliano Amato nel 2005 qui riprese con favore, di un inquietante, strutturale «ermafroditismo» politico.

Poco si concede ai miti moderni, quindi: né stupisce allora che l’oligarchia, infine, sia discussa come il modello di gestione politica più fruibile per la comprensione del grigio nostro presente. A detta di Mény, anzi, la questione del potere accentrato «al tempo di Aristotele e Platone, come in quello di Trump, di Putin, di Merkel o di Macron» si pone «negli stessi termini teorici». Del resto, l’opacizzazione dei percorsi decisionali, che sia effetto di globalizzazioni, epidemie o guerre, appare irreversibile e ha emarginato ogni sforzo di riflessione sul buon governo. Rispetto agli antichi, e ai nostri avi, si è perduto persino il mito del tirannicidio.

A quale «palazzo» andrebbe mai dato l’assalto? Gli ultimi casi, dalla Casa Rosada a Capitol Hill mostrano che il moto è capovolto. E verso quale petto andrebbero rivolti i pugnali di Armodio e Aristogitone? Anche qui la strada è smarrita, e l’esempio insterilito anche sul piano morale. Per certo, l’autore è ben consapevole delle criticità presenti nel sistema antico e dei limiti di tante riprese moderne, acritiche, mitizzate o interessate. Il suo approccio concreto risulta convincente, o comunque stimolante. Utopistico è sperare in un superamento dello scetticismo realista circa l’imperfezione degli antichi, che riporti a uno sguardo forse più ingenuo, ma meno disperato.