Gli appassionati di cinema dovrebbero essere grati al filosofo francese Jacques Rancière. C’è qualcosa nei suoi scritti che invita a oltrepassarne la lettera e suggerisce di assumere una precisa posizione: una sorta di protrettico cinematografico, un invito a essere spettatori o meglio a interrogare nel profondo il senso della figura dello spettatore, per coglierne un aspetto politico che tenderemmo magari a sottovalutare.
Rancière ha dedicato al cinema due libri – La favola cinematografica e Scarti. Il cinema tra politica e letteratura – più un lungo saggio su Béla Tarr e numerosi altri contributi dagli anni Settanta a oggi. Ci si può accostare a questi testi per il loro valore intrinseco, per interesse storico, per curiosità filosofica o cinefila. Ma ci si può anche chiedere che cosa fare di essi, in che modo oltrepassare quanto scritto da Rancière per provare a prendere sul serio il suo invito. Il suo approccio al cinema è in effetti generativo, fecondo: esso non è soltanto alla base di una serie di nuovi studi che si ispirano esplicitamente al modo in cui mette in relazione estetica e politica per esplorare campi nuovi – come fa ad esempio Guillaume Le Blanc nel recente L’insurrection des vies minuscules, inserendosi dichiaratamente in un tracciato rancièriano per calarlo su un terreno originale che da Charlie Chaplin porta a Marine Le Pen. Ma in modo più ordinario i testi di Rancière sono un invito a ripensare il cinema come arte democratica per eccellenza e a leggere alcuni grandi autori della storia del cinema come nostri contemporanei, guardarne le opere per ripensarne il senso o scoprirli per la prima volta. La filmografia costruita da Rancière, al crocevia tra una cinefilia classica e una riflessione sul ruolo che l’amore per il cinema deve assumere nel XXI secolo, è senz’altro uno degli aspetti degni di maggior interesse per chi si accosti agli scritti del filosofo. Mi pare che i suoi testi possano essere utilizzati essenzialmente in tre modi. Da essi è possibile prendere spunto per assumere una pratica: quella di pensare il presente con gli strumenti del presente. Questa pratica può servire a prendere una posizione, che è quella dello spettatore, provando a ripensarne le caratteristiche ma anche a riscoprirne il gusto. E a partire da questa posizione ci si può interrogare per scoprire quale nesso essa abbia con la politica, nel tempo della crisi della politica propriamente detta. Credo siano queste le coordinate provvisorie all’interno delle quali si può provare a posizionare il pensiero cinematografico di Rancière, per riflettere sul carattere eminentemente politico delle immagini ed entrare in questo modo nel cuore delle sue ricerche.
Chiariamo subito che parlando di politica non intenderemo l’arte del governo delle popolazioni, ma piuttosto la creazione di scenari di resistenza alla gestione pura e semplice dell’esistente: configurazioni che possano scardinare un’arte di governo e aprire a una nuova considerazione del mondo e dei rapporti tra le persone. Vi è politica laddove non si crede a chi ci dice che esiste un solo modo di pensare il presente e che qualcuno possiede la chiave per interpretarlo nell’unico modo possibile; vi è politica dove si riconosce che il reale è sempre frutto di una configurazione del sensibile, e che questa configurazione crea delle ripartizioni – inclusioni ed esclusioni – sempre modificabili. La politica, insomma, è arte di conflitto e non di consenso. Il cinema è uno dei mezzi di riconfigurazione del campo dei possibili. Come l’arte in generale, esso ci fa vedere cose che prima non avevamo visto, ma forse più di altre arti rifiuta di avere un target predefinito. È l’arte che ha dato spazio a ogni oggetto o tema e che ha accolto dentro di sé chiunque, senza permesso, senza che fossero necessari prerequisiti particolari. Ma non bisogna pensare che la politica del cinema risieda soprattutto nelle storie che racconta, quanto semmai nel dispositivo di immagini e nella configurazione del mondo che esse mettono in campo. «Un’arte non è mai soltanto un’arte: è sempre contemporaneamente la proposta di un mondo» scrive Rancière, o ancora: «L’arte in sé non esiste se non come frontiera instabile, che per esistere ha bisogno di essere continuamente attraversata». Ecco allora che il cinema non finisce nel momento della proiezione sullo schermo, ma vive nel ricordo e nella riappropriazione di cui ogni spettatore si fa interprete.
È a questa lezione della cinefilia classica che Rancière si è formato e di cui oggi rappresenta una incarnazione originale, e al cinema come arte viva e popolare si rifà anche l’approccio che adotta per parlarne: quello di chi rifiuta l’autorità degli specialisti o l’istituzione di gerarchie e vuole invece mantenersi al di fuori di ogni compartimentazione disciplinare. In una recente intervista ai Cahiers du cinéma Rancière si scaglia esplicitamente contro i film studies e contro l’anestetizzazione cui il cinema è soggetto quando finisce nelle mani di quelli che – parafrasando Schopenhauer – potremmo chiamare cinefili delle università. Un cinema che, divenuto oggetto di analisi chirurgica, finisce per perdere la sua costitutiva vitalità. Da qui la costruzione di una forma di analisi che fa della posizione dell’amateur che si rivolge all’oggetto della sua passione una vera e propria rivendicazione, e che invita ogni appassionato a fare lo stesso. Il carattere programmaticamente asistematico dei testi di Rancière deve allora essere inteso come il frutto di questa scelta esplicita: non una proposta di teoria del cinema, bensì la volontà di mostrare come a partire da alcuni esempi –momenti o scene, così li definirebbe – sia possibile ripensare alcune totalità date come fisse e immodificabili. Un’apologia del frammento votata alla sistematicità nella difesa di due attitudini: la possibilità per chiunque di lavorare sul sensibile – ovvero l’uguaglianza – e la tenacia nell’abbattere ogni forma di trascendenza intellettuale – ovvero l’emancipazione.
In un bellissimo testo dedicato a Serge Daney Rancière ha scritto che il cinema ha rappresentato la possibilità di abbattere i circoli chiusi della cultura alta, è stato l’arte popolare che poteva cambiare leggermente ma sensibilmente la vita di quelli che Foucault avrebbe chiamato gli uomini infami. Il cinema ha parlato una lingua che poteva, in una sola sequenza, aprire a un mondo inatteso, a esperienze impensabili, ponendo lo spettatore al centro e dicendogli: ecco il mondo, qui ci sono alcune vie possibili, scegli quelle che ti piacciono di più o inventane di nuove. La grande comunità creata dal cinema è una comunità sempre in eccesso, una comunità che non coincide mai con se stessa. Il cinema ha formato e forma ancora oggi una comunità sempre possibile, da reinventare costantemente. È forse questo senso di comunità instabile ad aprire nuovi scenari possibili anche per non relegare le forme di soggettivazione politica propriamente dette sempre ad altri, sempre altrove. La nuova cartografia del cinema delineata nei suoi scritti può essere da questo punto di vista un buon punto di partenza: cineasti come Pedro Costa, Béla Tarr, Rabah Ameur-Zaïmeche, Sylvain George o Tariq Teguia provano a costruire una geografia più complessa di quella considerata ordinariamente e di essa Rancière è in qualche modo interlocutore e interprete privilegiato. Accostare a questi autori una sequenza di danza di Fred Astaire e Cyd Charisse aiuterà ad avvicinarsi molto al senso del lavoro di Rancière, perché «il cinema dev’essere pensato come un’avventura storica globale; se ci si concentra soltanto sulle uscite dell’anno se ne smarrisce il senso. Non bisogna cercare di scegliere nell’attualità ma prendere il cinema come un tutto rispetto a tutti i suoi possibili, il che presuppone di ricreare una vera cinefilia militante. Bisogna ripensare il cinema all’interno di una storia delle possibilità di vita».