La reazione di Pechino alla nuova legge sulla sicurezza approvata da Tokyo, non poteva che essere di fastidio e malumore. La notizia ha provocato la reazione di qualche alto papavero dell’esercito e c’è da credere che abbia smosso anche la tranquillità della leadership alle prese con questioni economiche non da poco (la borsa e il debito, per quanto la crescita venga confermata al 7 per cento anche nel secondo trimestre). Ci sono tutti i crismi di una tensione in crescita, specie con Giappone e Stati uniti, visti i delicati equilibri della regione.

La Cina è solita avere un comportamento piuttosto moderato e pacifico nelle sedi internazionali, tentando sempre di porsi come mediatrice, senza spingere sull’acceleratore. Segna il punto quando necessario (attraverso veti in sede Onu o la forza diplomatica in contesti a rischio), ma nel complesso si presenta come una potenza responsabile e comprensiva.

La crisi greca ha dimostrato proprio questo atteggiamento «conciliante». Diverso è il comportamento di Pechino nella zona che considera di proprio interesse strategico, come ad esempio il Pacifico.

Le tante contese territoriali con molti paesi asiatici vedono la Cina protagonista di atteggiamenti molto determinati, quando non arroganti, a dimostrazione di un doppio binario diplomatico. Nel caso del Pacifico e del mare cinese orientale e meridionale, inoltre, la Cina è spinta ad un atteggiamento più aggressivo anche a causa del rinnovato interesse degli Stati uniti per l’aerea. Obama – da sempre – ha sottolineato l’importanza strategica del pivot to Asia, il suo lascito in fatto di politica estera americana. Gli Usa sposteranno entro il 2020 il 60 per cento della propria forza marittima nel Pacifico.

Wasghinton lavora alacremente per il Tpp, un accordo di libero scambio con parecchi paesi asiatici, esclusa – guarda caso – la Cina.
Pechino sa di rischiare una sorta di accerchiamento e quindi agisce «in difesa», come spesso testimoniano i suoi leader o vertici militari. È stato lo stesso presidente Xi Jinping, poco dopo essersi insediato al potere, a richiedere la messa a punto di una zona di identificazione aerea sull’area contesa con il Giappone (le isole Diaoyu per Pechino, Senkaku per Tokyo) provocando parecchio malumore in Giappone e negli Stati uniti.

Ma la Cina non si è fermata, anzi. Ha cominciato a costruire isole artificiale per favorire l’estrazione di risorse e la navigazione dei propri pescherecci. La zona del mar cinese meridionale e orientale è diventato un luogo ad alto traffico marittimo e il rischio di un incidente fatale è sempre più alto. Esagera sicuramente chi prospetta a breve il rischio di un conflitto, ma non si può certo scartare a priori l’ipotesi di un innalzamento del livello di tensione tra i paesi. E Cina e Giappone, alle cui spalle spingono gli Stati uniti, sono i due protagonisti principali.

Ieri il premier cinese Li Keqiang ha incontrato un alto dirigente del ministero degli esteri giapponesi. La giustificazione ufficiale è stata quella legata ad una sorta di primo round preparatorio per la visita di Abe a Pechino il prossimo settembre (al riguardo nulla è stabilito, ma pare che Abe ci stia pensando).

Ma è sicuro che la Cina non mancherà di lamentarsi con il Giappone per la nuova legge, che viene vista chiaramente come una minaccia per la regione. E un altro rischio è dato dai nazionalisti cinesi in seno all’esercito, che si annidano soprattutto, ultimamente e non a caso, nella marina. La mossa giapponese potrebbe favorire il loro «partito interno», spingendo Xi Jinping ad assecondarli sempre più.