Da oggi fino al 14 febbraio, dopo 65 anni dalla guerra civile che separò la Repubblica Popolare cinese da Taiwan, sono cominciati i colloqui di più alto livello tra i politici dei due paesi. Si tratta di incontri che costituiscono un’occasione definita «simbolica, ma storica». L’incontro è stato organizzato a Nanchino; un segnale della buona predisposizione di Pechino, si dice, poiché la città fu per ben due volte l’antica «capitale del Sud», quando a regnare sul paese erano proprio i nazionalisti di Chang Kai shek, prima di scappare a Taiwan a seguito della vittoria comunista.

Il summit nasce dopo innumerevoli sforzi diplomatici («è incredibile lo sforzo fatto per arrivare a questo tavolo comune», ha specificato il rappresentante taiwanese), che da tempo hanno posto come obiettivo primario la «normalizzazione» delle relazioni. Un percorso iniziato già durante la scorsa leadership cinese, quella diretta da Hu Jintao, attraverso il sostegno e la vittoria poi del partito dell’isola pro Pechino. L’incontro tra le delegazioni, guidate per Taiwan dal ministro competente per il Consiglio per gli Affari continentali Wang Yu-chi e per Pechino dal direttore dell’Ufficio per gli affari di Taiwan, il ministro Zhang Zhijun, segna dunque un momento di importanza storica per i due paesi e per l’area asiatica in generale.

Wang ha raccontato che questa serie di incontri aprirà un nuovo capitolo nelle relazioni tra Taipei e Pechino, sottolinendo che spera che vi sarà nel futuro una visita di Zhang a Taiwan. «Un incontro del genere non è una cosa facile – ha detto ai giornalisti – è il risultato di contatti di anni tra le due parti. Spero che le cose procedano senza intoppi». Quella di Wang è la prima visita in Cina del ministro responsabile delle relazioni con il gigante asiatico.

Normalizzare le relazioni

Nell’incontro dell’Opec a Bali, lo scorso ottobre, Xi Jinping, segretario del Partito comunista e Presidente della Repubblica popolare cinese era stato chiaro, quando aveva specificato che le relazioni tra Taiwan e la Cina non potevano andare avanti per sempre, senza un avvicinamento che fosse reale e politico, oltre che commerciale (dal 2008 gli scambi economici tra i due paesi sono duplicati). Il dilemma e l’acrimonia tra i due Stati, non può riversarsi di generazione in generazione, aveva spiegato Xi Jinping. Affermazioni che avevano anticipato una nuova relazione tra due popoli che dal 1949 sono separati e si guardano in cagnesco.

I taiwanesi, del resto, vivono la propria identità sentendosi molto più cinesi dei cinesi. Si considerano loro i veri depositari dell’essenza cinese: usano ancora i caratteri tradizionali, al contrario della Cina che si è convertita ai caratteri semplificati, si sentono ancorati alle tradizioni spirituali confuciane, alle arti marziali e si percepiscono tuttora come i rappresentanti di una Cina che non si è piegata alla fase comunista e che anzi, molto prima delle svolte denghiane, si era affacciata sul mercato mondiale grazie ai propri prodotti tecnologici, diventando per altro una delle ormai note «tigri asiatiche», predisponendo un sistema politico democratico. Passeggiando per le strade di Taipei, e parlando con la popolazione locale, si hanno continue sottolineature della distanza tra i due popoli.

Eppure la politica e le sorti economiche del continente, hanno finito per spingere i due paesi ad un compromesso, complice l’espansione americana nell’Asia e una crisi economica dell’isola che ha facilitato le relazioni commerciali con Pechino. Con l’elezione del Presidente Ma Ying-Jeou, nel 2008 (il paradosso è che il Partito maggiormente pro Pechino nel corso degli anni è diventato proprio il Guomindang del terribile nemico Chang Kai-shek, con il Partito Democratico su posizioni completamente anti cinesi) i rapporti tra i due paesi si erano definitivamente rilassati. Se fino a poco prima i tanti taiwanesi che vivevano in Cina, per tornare a casa dovevano passare obbligatoriamente da Hong Kong, un primo segnale fu proprio la possibilità di volare direttamente dalla Cina a Taiwan, sviluppando in poco tempo un fiorente mercato turistico.

I nomi e la storia

Alcuni giorni fa sull’isola è scoppiata una polemica a seguito di una revisione dei libri scolastici. Tra le riforme, c’era anche quella di chiamare «Cina continentale» anziché «Cina» il vecchio nemico storico. Alcuni hanno protestato, perché la nuova terminologia indicherebbe una prossimità territoriale poco gradita. Nei giorni in cui la riforma era annunciata, ci sono state alcune proteste a Taiwan. «Chiamare la Cina, “Cina continentale” implica che Taiwan e la Cina sono ad un certo livello parte di una stessa entità. La revisione storica sta cercando di sottolineare il legame tra Taiwan e la Cina», ha detto al Wall Street Journal il manifestante Ben Chiang, 28 anni, un candidato al dottorato in letteratura alla National Taiwan University. «Se il governo può cambiare cose come questa, ho paura che poi rivedrà la nostra storia». Il ministero dell’istruzione – proseguiva il quotidiano economico – ha detto in una dichiarazione del 27 gennaio che la revisione sarebbe «un adeguamento delle dicitura basata sulla Costituzione ed i regolamenti che disciplinano le relazioni attraverso lo stretto di Taiwan. I cambiamenti sono in linea con le esigenze pratiche delle prospettive giuridiche e sociali».

Quanto sospettava il manifestante, sembrerebbe corrispondere alla realtà, visto l’incontro di Nanchino. E la stampa cinese sta elogiando il summit, sottolineando come – al termine del primo round di colloqui – si stia seguendo quel consenso del 1992, che parlava chiaramente di «una sola Cina».