Pdl in ordine sparso, e il fondatore in mezzo.Da tutti invocato, da tutti confermato come massima e indiscussa autorità, da nessuno più ascoltato. I falchi, o «lealisti» che dir si voglia, sono pronti a muoversi comunque, con lui o senza di lui. Hanno un obiettivo chiaro, rompere gli indugi e passare all’opposizione. Hanno un terreno di scontro che meglio non si può, la finanziaria nella quale le tasse ci saranno eccome e che, anzi, presenta «evidenti rischi di stangata sulla casa», come taglia cortissimo Daniele Capezzone.

Non si tratta di qualche testa calda. E’ l’intera area dei duri che non vede l’ora di arrivare alla spaccatura sul terreno della finanziaria, sempre che l’occasione non capiti prima, quando la barzelletta del voto immediato e rinviato poi di mesi per unanime consenso sulla decadenza arriverà alla sua inevitabile conclusione.
Ma dall’altra parte le cose non stanno messe diversamente. Ieri l’intero stormo di colombe ha preso spunto da un’intemerata della Bonfrisco per lanciare un’offensiva in piena regola. All’origine dell’ennesimo fattaccio un’intervista del ministro Quagliariello durissima contro le nuove tentazioni di crisi, con tanto di monito («I numeri per la sfiducia non ci sarebbero stavolta come non ci sono stati la volta scorsa») ma anche con tanto di stoccata precisa contro i «nemici»: il no secco a quella richiesta di azzeramento delle cariche che è il cavallo di battaglia dei lealisti.

La Bonfrisco lo rimbecca con toni altrettanto definitivi, accusandolo di fatto di alto tradimento della guerra santa contro le tasse, in particolare contro quella sulla casa. I 24 senatori governisti, tanto per rimarcare che ci sono e non hanno cambiato idea rispetto a poche settimane fa, colgono la scusa al volo. Diramano un comunicato al vetriolo nel quale definiscono addirittura «non più tollerabile la critica distruttiva e permanente alla legge di stabilità e all’operato del governo».

Toni da scissione, dall’una e dall’altra parte, che però, per esplodere, devono superare una grossa resistenza: quella di Berlusconi.
Il Cavaliere è fuori di sé. Il Pd gli ha confermato che «la Severino non si interpreta, ma si applica». Ha realizzato che gli anni di interdizione, grazie a quella legge, saranno ben più dei due comminati. L’opposizione di Enrico Letta, per ora, ha bloccato quel rimpasto che avrebbe dovuto portare un rappresentante dei duri (Raffaele Fitto) o almeno un doroteo (Schifani) al posto di Alfano come ministro degli Interni. Schiuma rabbia, sarebbe prontissimo alla crisi ma sa di non poterla per ora ottenere. Anche Maroni e Calderoli in un incontro diretto, gli hanno confermato che loro le elezioni non le vogliono: «Se passi all’opposizione, benissimo. La faremo insieme». Ma le urne devono restare serrate ancora per un po’.

I falchi vogliono l’opposizione, anche contro il suo parere. La Lega la pensa allo stesso modo. Persino Mario Monti si è trasformato di colpo in nemico giurato del governo Letta. Se il Cavaliere togliesse la fiducia, il governo si ritroverebbe da un momento all’altro più debole di quel che era nel 2006 il governo Prodi.
Il passaggio all’opposizione del grosso del Pdl condannerebbe il governo a morte rapida. Però non immediata. E Berlusconi ha paura che, nel breve tempo della sua agonia, una maggioranza senza più la sua presenza all’interno, procederebbe all’esecuzione finale. Lo manderebbe in galera.

Così Berlusconi esita. Temporeggia. Dice a ciascuno una cosa diversa. Ascolta le dichiarazioni lealiste di Alfano, cosciente di essere troppo elettoralmente debole per sfidare le urne senza il padre fondatore, e poi sbotta: «Lo aspetto al varco del voto sulla decadenza». Però non si decide.

Alla fine, sarà proprio il voto sulla «non convalida dell’elezione del senatore Berlusconi» a piombare su quel formicaio impazzito che è oggi il Pdl, partito che di certo non ha più nulla, nemmeno il nome. Sempre che, con qualche colpo di bacchetta magica, l’inesauribile fantasia dei politici italiani e soprattutto del Colle non riesca a disinnescare quella che, a mesi dalla sentenza sui diritti Mediaset, è ancora la mina più minacciosa per il governo.