Chi la nomina per smentirla (Gianni Cuperlo, Lorenzo Guerini), chi per contrastarla (Davide Faraone), chi per scongiurarla (Matteo Orfini), chi per minacciarla (Pippo Civati). Nel Pd del post manifestazione Cgil la parola «scissione» torna improvvisamente trend topic.

Eppure le minoranze che si preparano alla battaglia campale di questo mese si sgolano per negare l’intenzione di fare le valigie dal partito della nazione. Solo Civati ammette che a mollare ormai pensa sul serio: «Decido se andare via nelle prossime settimane», ha dichiarato a Repubblica, «vedo se è possibile discutere di Sblocca Italia, articolo 18 e legge di stabilità, altrimenti… Insomma, non sono candidato al martirio».

Civati segna, in ordine sparso, le tappe della road map del prossimo novembre. Ma fra i critici del renzismo, la sua posizione (e quella dei pochi parlamentari a lui vicini, un deputato e un pugno di senatori) è molto particolare: lui è salito sul palco di Santi Apostoli con Vendola e Landini quando, lo scorso 4 ottobre, Sel ha lanciato la «coalizione dei diritti e del lavoro». Il presidente pugliese, ormai a fine mandato, punta sul serio a un soggetto di sinistra che raccolga la rappresentanza politica della piazza della Cgil. Un soggetto che allarghi il bacino della Lista Tsipras, con la quale infatti i rapporti non sono idilliaci. E che raccolga – almeno questa è l’intenzione – lo scontento di casa Pd, dirigenti e base. Ma, sempre a parte Civati, la sinistra Pd, che pure con Sel ha rapporti di fitta collaborazione a Montecitorio (certificati dalle molte inziative firmate insieme da Fassina e dagli indipendenti di Sel Airaudo e Marcon) ha interesse «a costruire una lettura condivisa della situazione».

Di qui a un «progetto» ce ne corre. Lo sa anche Renzi, che ieri alla domanda precisa di Lilli Gruber (tornata a condurre 8 e mezzo) se auspicava la nascita di una formazione di sinistra, ha liquidato la questione senza darle peso: «C’è già qualcosa a sinistra del Pd e ha preso il 4,3 alle europee mentre noi abbiamo preso il 40».

E infatti per la minoranza dem di rito bersaniano la situazione, nonostante il successo della manifestazione della Cgil o forse prorio per questo, sta prendendo una piega molto delicata. Quest’area si giocherà la sua scommessa in questo mese. E sa bene che per il proprio destino, soprattutto per la propria compattezza, tutto dipende non dalla «scissione» ma dalla parola chiave delle prossime settimane: la «fiducia».

Perché nei prossimi giorni le commissioni bilancio e lavoro procederanno in parallelo rispettivamente sulla legge di stabilità e sul jobs act. Da calendario – e anche da desiderata della minoranza – sarà la prima a passare al voto dell’aula. Anche la manovra ha più di un passaggio indigesto ai non renziani, ma la riforma del lavoro, con la sua carica potenzialmente deflagrante per il Pd, dovrebbe arrivare al voto nell’ultima settimana di novembre. A meno che il governo non chieda di invertire il calendario.

In commissione lavoro i riformisti ripropongono il pacchetto dei sette emendamenti presentati al senato, e poi vanificati dal voto di fiducia. Che da quest’area è stato dato proprio perché, spiega Alfredo D’Attorre, «c’era la possibilità di emendare il testo a Montecitorio», come del resto era scritto nel documento dei bersaniani che si sono allineati.

Se Renzi vorrà tenere compatto il suo partito o spingere la minoranza a uscire lo si vedrà dall’iter del jobs act. Il segretario ha tre possibilità: la prima, la più improbabile, è accettare almeno una parte degli emendamenti della minoranza, e così riconquistare al Pd un clima più sereno; la seconda, la più pericolosa per il Pd, è mettere la fiducia sul testo del senato e così certificare la volontà di scontro con una parte minoritaria ma ampia del suo partito, rinfrancata peraltro dal successo della manifestazione della Cgil e dalla sostanziale buona accoglienza che la pattuglia dei dissidenti Pd ha ricevuto sabato scorso. La terza possibilità è la più pericolosa per la minoranza: far accettare qualche emendamento light al jobs act e spaccare il fronte dei dissensi, e costringere il gruppo di punta (Fassina, Cuperlo, D’Attorre, Civati, Bindi) all’isolamento e alla scelta personale.