Paura e incubi per i bambini di Gaza
Palestina Gli effetti sui minori della vita in una prigione a cielo aperto
Palestina Gli effetti sui minori della vita in una prigione a cielo aperto
Mentre vengono ripresi i negoziati israelo-palestinesi per iniziativa del segretario di stato americano, John Kerry, la Striscia di Gaza continua a essere una prigione a cielo aperto: chiusa tra il mare, l’embargo di Israele e adesso anche dall’Egitto. Una striscia di terra lunga 41 km e larga tra i 6 e i 12 km, dove ci sono un milione e 700 mila abitanti – un terzo sotto la soglia di povertà – e dove dal mese di giugno, per la chiusura dei tunnel da parte delle autorità egiziane, la popolazione è allo stremo. Un luogo d’inferno dove circa la metà di quelli che ci vivono sono minorenni, e dove rimane difficile pensare a un vero processo di pace senza la domanda preliminare su come le generazioni del futuro potrebbero sostenere e costrutire questa pace. Un pensiero che volge al peggio dopo il rapporto dell’Onu che ha accusato Israele di violenze sistematiche nei confronti dei minori detenuti, esprimendo «profonda preoccupazione circa i maltrattamenti e le torture ai bambini palestinesi arrestati».
Ma come crescono questi bambini in un lembo di terra cieca, dove regna il terrore che tutto ciò che hanno gli possa venir portato via in un istante insieme alla propria vita? Perché se è vero che un bambino può subire ferite profonde a seguito di esperienze violente, è anche vero che gli effetti invisibili di uno stato di pericolo costante durante la crescita, possono essere indelebili. Lo stress emotivo della permanenza prolungata in un territorio che somiglia a una grande prigione, dove in ogni momento puoi essere colpito senza possiblità di fuga, può far sviluppare ai bambini problemi comportamentali che rendono difficoltoso, o impossibile, il recupero a una vita normale dal punto di vista psicologico, oltre che materiale. E quando i conflitti si protraggono nel tempo in un clima di tensione con periodi di tregua, come nel caso della Striscia di Gaza, i bambini possono sviluppare anche il desiderio di vendetta.
Dopo l’operazione “Piombo Fuso”, che nel 2008-2009 ha provocato 1.380 palestinesi uccisi (tra cui 313 bambini), e a seguito dei bombardamenti nel novembre 2012 (con 174 morti, 1.399 feriti, 450 case distrutte e 105 scuole danneggiate nella Striscia), l’Unicef ha condotto uno studio per la valutazione dell’esposizione alla violenza nei conflitti in fase di crescita a Gaza, rendendo noto che il 97% dei minori presi in esame aveva visto corpi morti o feriti, e che il 47 % aveva assistito direttamente all’uccisione di persone. «Per i bambini un evento così mina il senso di sicurezza. Non capiscono cosa stia succedendo e si sentono impotenti. A volte possono persino pensare di essere responsabili del disagio sofferto dalla famiglia», dice Bruce Grant, responsabile Unicef nei Territori occupati. Nei sintomi dell’esposizione al conflitto ci possono essere flashback, incubi, paura di uscire in pubblico e di stare soli. In particolare tra questi bambini sono stati osservati sintomi fisici come disturbi del sonno, digrigno dei denti, pianto ininterrotto, dolori corporei, alterazioni dell’appetito, anoressia, stordimento e stati confusionali; mentre tra i sintomi emotivi sono stati notati nervosismo eccessivo, rabbia, difficoltà di concentrazione, affaticamento mentale, insicurezza e senso in colpa, a cui si aggiungono le dimensioni della paura come la paura della morte, della solitudine, di suoni forti. Conseguenze che ogni minore sottoposto allo stress da guerra può avere, anche se per Gaza il problema è differente. Andrea Iacomini, portavoce Unicef Italia, dice che «a Gaza esiste un problema di conflitto permanente in un contesto dove è difficile intervenire perché è come stare in una scatola sigillata da cui non puoi comunque uscire». Dopo le incursioni dell’anno scorso ci sono stati casi con bambini terrorizzati che non volevano dormire con le finestre chiuse, malgrado il freddo, per paura che un passaggio aereo mandasse in frantumi i vetri. Ma le conseguenze possono essere anche principi di sdoppiamento di personalità. «Il piccolo Udai – spiega Iacomini – ha detto agli operatori quello che ha visto prima di perdere la famiglia, in maniera distaccata e priva di ogni emozione, raccontando che mentre era nella sua casa ha sentito un boato e ha visto dalla finestra una luce rossa e subito dopo la casa di fronte era sparita, riferendo di aver capito di aver perso i suoi vicini di casa; e poi ha detto di aver visto un nuovo lampo rosso ma senza boato, ritrovandosi tra le macerie di casa sua, ed è lì che ha compreso che la sua famiglia era stata colpita ma che lui era vivo. Un racconto che Udai ha fatto, mostrando una grave dissociazione da ciò stava descrivendo come se non fosse stato lui a viverla».
Dai disegni di questi bambini si può capire molto, perché anche se si tratta di disegni a tema libero fanno solo carri armati, aerei, bombe, sangue, pistole, mitragliatrici, morti: immagini di cui questi minori non riescono a liberarsi e che sanno di poter rivivere. Nell’operazione “Piombo Fuso”, la famiglia Olaiwa era in cucina e un proiettile d’artiglieria è entrato dalla finestra ferendo una delle figlie (Ghadir, 15 anni), decapitando la madre Amal (40), ammazzando sul colpo 4 dei suoi figli (Mo’tassem di 14 anni, Mo’men di 13, Lana di 9 e Isma’il di 7): un attacco a cui sono sopravvissuti il padre e il ragazzo di 16 anni che oltre ad aver riportato gravi ferite ha assistito alla mattanza dei suoi familiari. Mohammed Abu Eita (12 anni) ha visto colpire casa sua e ha visto morire sotto i suoi occhi il fratello Ahmed (16), la sorella Malak (2), il cuginetto Anwar (7), e ha visto il corpo della zia Zakia esplodere e le sue interiora sparse ovunque. Tahreer (18 anni), Ikram (15), Samar (13), Dina (8), Jawaher (4) sono le 5 sorelle che componevano la famiglia Balousha, e sono morte in seguito a una bomba lanciata a tre metri da casa loro: solo i fratelli di 17 e 11 anni sono sopravvissuti, ma hanno ancora negli occhi la loro famiglia sterminata.
Eppure, in base all’articolo 38 della Convenzione sui diritti dell’infanzia ratificata da 193 nazioni, tra cui Israele, i Paesi firmatari devono prendere misure tali da assicurare protezione ai minori. L’avvocata Micòl Savia – rappresentante permanente dell’Associazione internazionale Giuristi democratici alle Nazioni Unite di Ginevra – spiega che «il diritto internazionale umanitario regola i conflitti in modo da limitarne gli effetti devastanti anche sui minori. I testi fondamentali sono le quattro Convenzioni di Ginevra adottate il 12 agosto del ‘49, e i successivi Protocolli Addizionali. Durante i conflitti i bambini godono di tutte le protezioni generali previste dal diritto internazionale umanitario, e in particolare dalla IV Convenzione di Ginevra, a cui si aggiunga anche la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia e il suo Protocollo Opzionale sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati, in vigore dal 12 febbraio 2002. Le violazioni di queste Convenzioni rappresentano un crimine di guerra in base all’articolo 8 dello Statuto di Roma sulla Corte Penale Internazionale, e possono essere perseguite davanti ai tribunali di tutto il mondo».
Eyad El Serraj, lo psichiatra che dirige il Gaza Community Mental Health Programme e si occupa dei disordini post-traumatici sui minori dal 1990, dice che per i bambini che curano si va dagli incubi alla difficoltà di concentrazione, dal senso di colpa per essere sopravvissuti, fino al senso di insicurezza e impotenza. Secondo El Serraj, la relazione che questi bambini hanno con i genitori è distorta perché si rendono conto fin dalla prima infanzia che non sono in grado di proteggerli, e parla di un trauma collettivo che aggrava il conflitto preparando la strada a nuova violenza, in quanto «il conflitto, da un punto di vista psicologico, dà vita a un ciclo di vittimizzazione e aggressione che continua a ripetersi, aggravandosi». I giovani passerebbero attraverso un momento iniziale di totale apatia, in cui si sentono stanchi e impotenti: uno stato d’animo che conduce spesso a gravi forme di depressione e alla fase di vittimizzazione. Poi il conflitto continua e i giovani cominciano a dare segni di forte ansietà e rabbia, e qui comincia la fase di aggressione che conduce a esplosioni di violenza: un ciclo che continua a ripetersi e ad aggravarsi. Ed è per questo i bambini andrebbero particolarmente protetti durante i conflitti armati, non solo perché particolarmente vulnerabili ma perché è da loro che dipende l’instaurazione di una pace vera e duratura.
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