Paulo Nazareth un giorno è partito da un luogo vicino alla favela in cui era nato, a Belo Horizonte, e ha cominciato a viaggiare. A piedi con le infradito, in autobus, con un pulmino.

È cominciato così il suo progetto Notícias de América (2012), che originariamente avrebbe dovuto basarsi su un’esplorazione di un solo mese. Invece, fra l’attraversamento del Sudamerica, l’America Centrale, Cuba, fino alla tappa ultima – New York -, durò più di cinque. La performance si concluse con l’artista che purificava i suoi piedi sporchi nel fiume Hudson. Nazareth, con la fluidità del suo camminare e incarnando l’ideale romantico dell’errante in cerca di varia umanità, raccoglie impronte in giro del passato colonialista e anche le tracce lasciate dai sacri antenati. Il suo è sempre un passare in mezzo a mondi diversi, quelli delle radici, dello schiavismo nero, del candomblé, della rete famigliare.

Per la Biennale d’arte di san Paolo (che, causa Covid, ha dovuto far slittare le sue date all’anno prossimo, 4 settembre / 5 dicembre 2021, pur mantenendo una serie di appuntamenti) ha proposto in streaming la performance A fleur de la peau (2020, Fundação Bienal). L’occasione è stata l’apertura della mostra Vento, con 21 ospiti a intrecciare relazioni con le opere ma senza pubblico. Nella sua azione, un sacco di farina bianca viene squarciato da alcuni attori neri e, a terra, rimane un cerchio che allude all’invisibile «potere /polvere» del colonialismo, mentre una donna spazza il pavimento. «Nella cultura yoruba, c’è una leggenda di matrice afro-brasiliana. Un giorno, la morte arrivò in un villaggio e iniziò a uccidere tutti, anziani e bambini, neonati e quelli che dovevano ancora nascere, madri incinte e altre, adulti forti e deboli. Così la popolazione implorò Oxala di intervenire: la morte non poteva continuare con quella follia, non stava facendo il suo lavoro correttamente.

Oxala prese un pollo nero con la mano sinistra e con la destra la polvere bianca di Efun. La soffiò sulle piume del pollo nero, trasformandolo in una faraona, con tanti puntini. Prima dell’alba, la portò al mercato, dove si incontrano tutte le vie del mondo e la liberò. Al suo risveglio, la Morte vide questa creatura sconosciuta e si spaventò: era una nuova vita contro cui nulla lei poteva.

Ecco, i cerchi che disegno a terra con la polvere di farina rappresentano quelle macchie di faraona. Mia madre mi ha sempre detto che l’arte è sacra, è un rito voodoo. È importante sapere che esistono tante fessure da cui possiamo spiare o contemplare il mondo, che l’opera mantenga la sua dualità. La polvere bianca è un rito terapeutico, il tempo invece è il cerchio bianco dell’ovest che si è propagato su altre culture, prendendo il sopravvento. Raffigura anche la matematica, la geometria, la scienza e rimanda in questo senso al modernismo, sia in Brasile che altrove. È un circuito delle arti, che però si chiude in se stesso, divenendo un piccolo «anello» di privilegi: chi è al di fuori, non viene considerato e presto dimenticato. E il modernismo non è solo quello della fine del XIX e XX secolo, ma una intera costruzione dell’immagine del mondo, a partire dalla fine del XIV secolo, quando esploratori e mercanti iniziarono a raggiungere l’Asia, l’India, la Cina, facendo il giro del Continente africano. In sintesi, il cerchio bianco indica la violenza del colonialismo e la sua eredità.

Lei ha affidato gran parte della sua arte al tema del viaggio. Come sta vivendo il periodo di pandemia?
Viaggio con lentezza e mi interessa soprattutto lo spostamento, non l’arrivo o la partenza. Per me sono viaggi anche le brevi passeggiate intorno all’isolato. Qualsiasi bivio della vita lo è. Il percorso stesso lo considero come una casa. Ogni ritorno al punto di partenza comporta scoperte, fiori che sono nati, altri che sono morti, alberi che non esistono più, nuove dimore costruite. Osservo il mondo dalla sommità del colle Palmital, a Santa Luzia (Minas Gerais): dall’alto, vedo in lontananza l’Estrada Real attraverso la quale scorrevano le ricchezze dei colonizzatori portoghesi. Vedo anche la pianura di Luzia (il nome dell’antenata brasiliana più anziana, da cui discendono i miei Borun). Guardo le terre dove vivevano tutte le donne che, anche prima di lei, camminavano a piedi per arrivare fin quassù. Ammiro il cespuglio che cresce tra una capanna e l’altra.

Sempre qui, mi sono steso nella polvere di minerale, ho toccato pietre ferrose e altri minerali: piccoli frammenti del mio corpo, cellule ancora pulsanti, atomi che costituiscono le mie cellule viaggiano per il mondo, proprio come virus e batteri. Le microparticelle del mio corpo si depositano sulla superficie dei minerali, gli stessi che venivano rimossi da questa terra dagli esploratori: erano arrivati in cerca di schiavi indigeni per poi scoprire l’oro e altre pietre preziose.

Girare per il mondo come ambasciatore di un’identità indigena fluida porta a collezionare tracce, ritrovare radici comuni, oggetti coloniali, stringere relazioni con le persone. A quali esploratori si è ispirato?
Provengo dalla terra dei Borun, gli indigeni della Vale do Rio Doce. Lì, la compagnia mineraria Vale ha commesso uno dei suoi più grandi crimini ambientali e sociali, uccidendo fiumi e abitanti sulle rive. Quella zona ha sempre ospitato molte comunità di africani ex schiavi che si sono liberati ed è stata invasa da coloni militari e civili fin dalla metà del XVII secolo. Nell’Ottocento divenne postazione militare e nei suoi dintorni crebbe un villaggio – poi una città – che accolse coloni immigrati di origini diverse. Nel suo periodo d’oro, la città fu il bersaglio di molti «avventurieri», così fino agli anni ’40 del Novecento pullulava di stranieri in cerca di affari facili (la regione forniva la mica, isolante termico per l’industria bellica durante la seconda guerra mondiale). C’è chi ritiene che sia stata proprio la presenza di forestieri a suscitare il desiderio degli abitanti di avventurarsi altrove.

Sono nato in cima a una collina periferica di fronte a Pico do Ibituruna, con mia madre ho imparato a fare piccoli viaggi per raggiungere il centro. Il mio «camminare nel mondo» lo devo a lei che si è presa cura dei miei piedi (li avevo ritorti all’indietro). Mia madre, Ana Gonçalves Da Silva, ha lavorato spazzando le strade della città. E prima di lei, maestra di cammino, anche i miei antenati Borun camminavano e, nel passato lontano, c’era Luzia. L’insediamento in America, per non parlare nel pianeta intero, è avvenuto principalmente attraverso «marce». È qualcosa che precede le grandi navigazioni, l’atto del camminare è antecedente a qualsiasi mezzo di trasporto.

La mia prima ispirazione sono le migrazioni delle popolazioni, l’essere umano che ha lasciato l’Africa, le escursioni in Asia, le traversate dello stretto di Bering, le marce degli schiavi attraverso l’America per fuggire dalla loro condizione. I viaggi di Gengis Khan, di Marco Polo, di Cabeza de Vaca. Un grande poeta che mi ha «guidato» è stato Matsuo Basho: i suoi pellegrinaggi, coniugati all’arte haiku, rappresentano una sorta di meditazione. Ma anche i cangaceiros del nordest del Brasile, i venditori ambulanti, gli artisti itineranti, i nomadi dell’India, i Sioux e i quattro jangadeiros Jacarée, Mestre Jeronimo, Tatá e Mestre Mané Preto. E poi i trecheiros che camminano per le strade brasiliane e in altre parti del Sud America.

Le molte identità indigene brasiliane oggi sono in pericolo. Cosa ne pensa?
È difficile affrontare la rappresentatività dei popoli originari. La democrazia occidentale, che crede di poterlo fare immaginando una rappresentatività politica in un governo centralizzato, è destinata al fallimento. L’identità indigena è complessa. In Brasile ci sono circa 200 lingue e ciascuna appartiene a un popolo specifico. È arduo per un solo deputato, un solo ambasciatore assumere su di sé questa realtà variegata. Allo stesso modo, la questione afroindigena, afrodiasporica è intricatissima, sebbene in America tutti gli africani schiavizzati e i loro discendenti siano stati raggruppati in un’unica categoria: i «neri». Le loro origini erano differenti e la loro discendenza continua a essere altrettanto prismatica. Mi sento un eterno apprendista sospeso tra mondi diversi, più che un ambasciatore, quindi.

Che opinione si è fatto della «guerra alle statue» e la distruzione dei monumenti di colonizzatori che hanno caratterizzato gli ultimi mesi?
Se avessi avuto un cranio di ferro, li avrei frantumati io stesso a testate. Potrebbe essere una «guerra giusta», ma ancora non lo è. Le statue hanno i governi al loro fianco: non solo i monumenti dei colonizzatori e del colonialismo, ma tutti i governi di mentalità simile dovrebbero essere demoliti. Negli Stati Uniti, ho trovato incredibile poter eleggere Obama e poi, subito dopo, un presidente come Trump. Anche qui non si capisce come l’élite socio-economica brasiliana non si vergogni di sostenere un capo di stato così reazionario e inelegante.

A rimuovere le statue da strade e piazze ci dovrebbe pensare il governo, ma poiché abbiamo ancora uno stato colonizzato / colonizzatore si finisce per doverlo fare con le proprie mani. La cosa paradossale è che ci sono tante mani per buttare giù i monumenti quante sono quelle che votano i «rappresentanti» dei colonizzatori. Questo ci fa dubitare della legittimità della democrazia. Non sarebbe il momento di ammettere che c’è qualcosa che non va nel mondo? In Brasile, siamo stati Vicereame, Regno e poi Impero, dal 1500 al 1889, quando ci fu un colpo di stato militare che pose fine alla monarchia fondando la repubblica. Da lì un susseguirsi di golpe. Nulla è cambiato per gran parte della popolazione, principalmente nera e indigena.

La repressione oggi è tale che non si ha il coraggio di rimuovere nessuna statua. Pure le marce e le manifestazioni pacifiche nelle strade sono state considerate atti di vandalismo e terroristici. Le recenti manifestazioni contro l’omicidio razzista di João Alberto Silveira Freitas (un quarantenne nero ucciso da due guardie di sicurezza in un Carrefour nel sud del Paese) sono atti vandalici per lo Stato e anche parte della popolazione. Abbiamo ancora molti monumenti di colonizzatori e del colonialismo eretti dentro di noi. Dovrebbero esser rovesciati per primi questi. Le ribellioni sono in Brasile avvenute di più attraverso i graffiti, pichação, visti come un crimine contro il patrimonio.

Già nel 2013 era stato imbrattato Il monumento ai Bandeirantes a San Paolo, la statua in onore degli assassini che, avanzando all’interno del paese, uccidevano e schiavizzavano gli indigeni. L’hanno dipinta di rosso, come il sangue che hanno versato.

Uno dei più imponenti monumenti al colonialismo esistenti nelle Americhe che dovrebbe essere abbattuto è la polizia militare del Minas Gerais, un’istituzione che ha già quasi 250 anni, mentre la cosiddetta indipendenza del Brasile non ne ha ancora 200. Questa polizia è stata creata durante il periodo coloniale per proteggere gli interessi della corona portoghese, perseguitando i neri schiavi e le popolazioni indigene. Un’organizzazione responsabile di omicidi e torture, che non è cambiata molto da allora. C’è molta repressione nel mio paese, i fascisti vengono eletti e rieletti nello scenario politico brasiliano. La corruzione dilaga. E se il vangelo non ci può più salvare non resta che la macumba.

Può un artista essere come uno sciamano che crea consapevolezza con le sue azioni?
Tra molti popoli non occidentali non esiste una parola che corrisponda ad arte, la più vicina sarebbe proprio guaritore, sciamano. Questo individuo che possiamo chiamare un artista non è altri che lo strumento di una divinità, di guarigione o creazione. Per avvicinarti a questa figura, devi lavorare sodo, saper ascoltare il tempo e lo spazio, te stesso e il mondo, controllare la rabbia per poter affrontare l’ingiustizia e l’oppressione mantenendo acceso il fuoco della tenerezza.