L’ultima volta che incontrammo Paulo Mendes da Rocha, scomparso domenica a 92 anni nella sua San Paolo, fu in occasione del Leone d’oro alla carriera assegnatogli nel 2016 alla Biennale Architettura di Venezia. Quattro anni prima, aveva duettato con Yvonne Farrell e Shelley McNamara (Grafton Architects) nel Padiglione Centrale nell’edizione della mostra diretta da David Chipperfield (Common Ground) riaffermando la sua idea di architettura come «geografia costruita», in altre parole come fosse necessario «sottrarre l’architettura alla creazione e al pensiero di oggetti isolati per mostrarla come una trasformazione inesorabile della natura».

IN QUESTO SENSO la sua esplorazione nel corso di una lunga carriera ricca di progetti esemplari, ha riguardato l’architettura nella sua dimensione di «infrastruttura» in grado di interrogare il paesaggio con fisso all’«orizzonte l’essere umano».
Nato a Vitória nel 1928, trentenne già fornisce una matura prova nel Club Atlético Paulista (1958) dove la sua «maniera brasiliana» si esprime nel coniugare razionalità e tecnica in un controllo severo della figuratività spaziale. Egli è stato l’erede della tradizione dei maestri del modernismo revisionato criticamente tra gli anni ’40 e ’50 in particolare da João Villanova Artigas (1915-1985), con il quale l’accomunò non solo una comune vocazione brutalista, ma l’attiva militanza nel Partito comunista brasiliano che nel 1969, con l’avvento della dittatura militare, causò a entrambi l’espulsione dalla Facultade de Arquitetura e Urbanismo di San Paolo, per essere entrambi riabilitati come insegnanti solo negli anni ‘80.

GIÀ PRIMA DEL GOLPE, però, Mendes da Rocha darà prova delle sue capacità all’interno del programma di edilizia sociale promosso dal governatore Carvalho Pinto: dall’asilo Jardim Calux (1972) all’invenzione di una nuova tipologia di tribunali che non prevedono più la prigione al loro interno, eredità coloniale portoghese.

Nel periodo  del suo forzoso «pensionamento» durante il ventennale regime militare la sua attività non si fermò per un istante, impegnato a elaborare pensieri per lo spazio pubblico partendo dalla piccola scala dell’architettura domestica: le case gemelle per sé e sua sorella a Butanâ (1964), Casa Millan (1970) e Casa Gerassi (1989). Questa serie di ambienti aventi «gradi diversi di spazio pubblico» sono prove di raffinata esecuzione nelle quali le funzioni si dispongono a un solo livello con perfetta razionalità distributiva, l’uso del cemento a vista è impiegato anche per gli arredi fissi e la luce proviene dall’alto e da lunghe finestrature a nastro.

La casa unifamiliare la considerava, però, un tema contradditorio in una metropoli dai forti contrasti sociali come San Paolo. Solo se si ripete in altezza questa ha un senso, come accade nell’edificio residenziale multipiano Guaimbè (1964-66). Una salda convinzione dell’architetto brasiliano è stata che l’habitat umano è conseguenza della trasformazione della natura giacché questa non può essere abitata. La città, ripeteva, può essere «pura emozione», ma è pur fatta di tecnologia. I modi, tuttavia, di adoperare l’urbanistica e l’architettura è una questione politica. Infatti «di là di ogni progresso tecnologico la qualità di ciò che chiamiamo casa interessa la grande prospettiva ideale della città come utopia e le possibilità che abbiamo di trasformare la nostra realtà». Per questo guardava con interesse all’esperienza del movimento popolare Ocupação attivo per trasformare gli edifici già esistenti.

La lezione di Mendes da Rocha è stata quella di farci comprendere che il progetto nel suo autentico significato etico è immerso nella «geografia della città» che riguarda tutti. Di continuo si prova a neutralizzarne la resistenza per favorire i processi diretti alla privatizzazione dello spazio pubblico, ma come ha dimostrato con il Museo Brasileiro da Escultura (1986-95) così come nella Praça do Patriarca (1992- 2002), entrambi a San Paolo, quando ci si misura con la scala urbana stabilendo originali configurazioni spaziali, è evidente il potere che l’architettura è in grado di esprimere se non condizionata da interessi mercantili.

CON LA SENSIBILITÀ e la coerenza che ha contraddistinto il suo agire di architetto e intellettuale impegnato, che gli valsero il Pritzker nel 2006, negli ultimi anni considerava grottesca la frenetica corsa a impossessarsi di altre risorse immaginando persino di trovarle su altri pianeti. Non riusciva a capacitarsi dell’impossibilità di fermare lo spreco ovunque diffuso. Nel menzionare Il manoscritto di Brodie di Borges ricordava la novella che racconta di quell’ospite che è contento di essere ben ricevuto, ma capisce di essere prigioniero.

Così dichiarò di essere «terrorizzato per aver scoperto che il nostro castigo sta in questa degenerazione che usa la creatività per pensare l’espansione della vita umana nell’universo». Avere a che fare con il «degenerato» è la nostra prigione ma Mendes da Rocha ci ha insegnato come potercene liberare.