La notizia della scomparsa del pianista Paul Bley è giunta in ritardo, senza clamore. Il 5 gennaio è stata annunciata la morte (avvenuta, in realtà, il 3 a Stuart, Florida) del grande improvvisatore e compositore di origini canadesi, statunitense di fatto. Attivo dagli anni ’50 prima nel proprio paese – dove fondò il Jazz Workshop di Montréal – e poi negli Usa al fianco inizialmente di Charlie Parker, Lester Young e Ben Webster, Bley ha vissuto la propria lunga carriera (è morto ottantatreenne) con assoluto rigore e coerenza, sempre alla ricerca di linguaggi sonori che non fossero ripetitivi.

Il suo stile pianistico, dopo un necessario apprendistato, si è definito per l’assoluta originalità, il rifiuto dell’utilizzo di «pattern», la ricerca spasmodica di improvvisazioni libere da modelli e condizionamenti, frutto di una spontaneità non naif ma consapevolmente coltivata, alla ricerca di una creatività che fosse «assoluta» e non derivativa. In Italia il pianista-filosofo Arrigo Cappelletti si è occupato della poetica di Bley dedicandogli un profondo studio (Paul Bley. La logica del caso, L’Epos edizioni, 2004) e ispirandosi al suo magistero sonoro; altro discepolo indiretto – in forme del tutto originali e personalissime – potrebbe essere il pianista Enrico Intra.

Scrive Cappelletti che «facendo incontrare l’idea giapponese della bellezza delle cose imperfette, temporanee e incompiute e il jazz, questa musica (quella di Paul Bley, ndr) fa propria un’intuizione importante: quella secondo cui il jazz, ponendo l’accento sull’improvvisazione, rifiuta di dare importanza, peso a quello che fa. Così facendo mette in crisi il concetto occidentale di arte (…) Il vero jazz deve essere semplice, sincero, mai propenso a darsi arie o, peggio, a rientrare in quello stile presuntuoso-accademico di cui è il principale nemico» (op. cit., p.131).

Dalle incisioni in trio del 1953 con Charles Mingus ed Art Blakey (Introducing Paul Bley) all’album in solo edito nel 2014 dalla Ecm (Play Blue, registrato nel 2008), il pianista ha sposato la sua arte a jazzisti che ne condividevano la filosofia. Nel 1955-’58 in California suona con Chet Baker ma guida un trio (con Charlie Haden e Billy Higgins) che si amplia nel ’58 con l’arrivo di Ornette Coleman e Don Cherry: il free jazz darà risposta concreta a molti dei suoi problemi estetico-sonori.

Dopo aver sposato la compositrice Carla Borg (1957), nel ’59 entra nell’orchestra di Mingus e registra anche con Eric Dolphy; il trio diventa presto il suo organico preferito e collabora con Steve Swallow e Jimmy Giuffre (1961-’62; la formazione rivivrà dal 1989 con album, tra le varie etichette, dell’italiana Soul Note) come con Gary Peacock, Don Ellis, Kent Carter, Dave Holland, Paul Motian, Barry Altschul, Billy Hart… È al fianco di Sonny Rollins, collabora alla fondazione della Jazz Composer’s Guid di Bill Dixon (1964).

Per un quadriennio (1969-’72) la ricerca di Bley passerà per i sintetizzatori, in sodalizio con la cantante Annette Peacock ma abbandona in seguito l’elettronica per concentrarsi sul piano solo, di cui sarà uno dei primi «maestri». Un «maestro» silenzioso quanto importante, un «lievito sonoro» che ha insegnato a più di una generazione a cercare senza sosta la musica che scaturisce dall’ «io profondo».