Freedom Suite (Sonny Rollins), New Jazz Conceptions (Bill Evans), Lerner & Loewe (Chet Baker), Amazing Bud Powell, Memorial Album (Fats Navarro), Thelonious Monk Plays Duke Ellington, Brillant Corners e Thelonious Himself (ancora di Monk) sono album «storici», fra le pietre miliari della centenaria storia jazzistica: ciò che unisce gli otto dischi è Paul Bacon (1923-2015) che ne cura l’aspetto grafo-visivo, realizzandone la cover o pochette (o copertina), destinata a entrare nell’immaginario collettivo, forse al pari delle stesse musiche incise. Bacon resta un artista figurativo esemplare nell’iter evolutivo del graphic design, non solo applicato alla discografia, anzi, la sua fama, da sempre, appartiene più al mondo dell’editoria che a quello delle sette note, per l’enorme quantità (circa 6500 titoli) di libri rispetto ai dischi (200) da lui realizzati in quanto a veste grafica: sua di fatto l’invenzione del big book look, ovverosia la sovraccoperta plastificata dal fascino cromatico immediato.
Insomma nella storia delle copertine di libri e dischi Bacon è un rivoluzionario, fin dal primo grande successo – corrispondente altresì al boom editoriale di un giovane scrittore – applica un metodo creativo che rimarrà una costante e una prerogativa per le tantissime grafiche successive; Paul dà soprattutto importanza (ovvero visibilità assoluta) a nome e cognome dell’autore, al titolo dell’opera, ai colori netti giostranti fra lettering personalizzati (ma di estro compassato) e sfondi quasi sempre astratti, neutri, geometrici.
La jazz cover, anche grazie a Paul, diventa un «cult» assai prima del rock, azzerando di colpo una storia mortificante: solo un decennio prima, le copertine «non esistono», ridotte ad anonime buste giallognole, entro cui infilare e sfilare il pesante e fragile 78 giri in ceralacca, i cui dati essenziali sono tutti riportati sul cerchio incollato attorno al buco.

METAMORFOSI
L’arrivo del long playing, che dal 1948 soppianta in breve gli scomodi padelloni, sancisce per il jazz un’autentica metamorfosi culturale, di cui Bacon – al pari di tantissimi musicisti – sfrutta al meglio le potenzialità: le nuove tecnologie nella registrazione sonora vanno infatti di pari passo a un’idea di marketing consistente in ulteriori incrementi plurisensoriali in chiave interdisciplinare; la necessità di maggiori attenzioni estetiche verso l’oggetto di serie, trova Paul pronto a rimarcare la dialettica testo/paratesto, contenuto/contenitore, insomma musica/copertina, attraverso un sound (il jazz) che sta attraversando una svolta epocale.
Infatti il jazz, a metà dei Fifties, quando Bacon inizia a sfornare grandi copertine, diventa una musica sempre meno di massa, per via della concorrenza di altri generi, benché sia l’unica a giovarsi al meglio della lunga durata rispetto al pop, al blues, al rock o alla stessa classica. Il grafico si rende conto, per la concorrenza di altri generi, che l’involucro del jazz non deve essere banale, povero, insipido, necessitando al contrario di una lavorazione raffinata, approfondita, multidirezionale rispetto ad esempio a un diretto concorrente quale il neonato rock’n’roll, al quale bastano pochi segni vistosi tanto nella musica quanto nella copertina e nel look per essere riconoscibile e venerato dai giovani.
Ecco quindi che il bustone che racchiude l’ellepì in vinile deve presentare, secondo i discografici, una bella immagine sul fronte, una serie di dati informativi e un apparato critico (le cosiddette liner notes) sul retro, onde orientare l’ascoltatore (o meglio il cliente) nei gusti e nelle scelte. E qui si inserisce il lavoro di un Bacon già trentenne, con alle spalle una guerra combattuta tra i marines nel Pacifico, un diploma al liceo artistico di Newark, diversi lavoretti per hot club e riviste jazz del New Jersey e soprattutto una spassionata attività come suonatore di kazoo (o addirittura di pettine con la carta velina) in seno a orchestrine dixieland revival. Dal jazz eseguito dal vivo di persona a quello disegnato per grandi solisti il passo è breve e Paul si trova a concepire e realizzare copertine per tre differenti label: inizia con la Blue Note di Alfred Lion e Francia Wolff, emigrati berlinesi ebrei che debuttano a New York negli anni di guerra pubblicando boogie e revival, per avvicinarsi quindi al bebop e con l’arrivo del 33 giri, per lanciare e codificare l’hard bop black; Bacon si trova, nella fase di transizione, a disegnare le raccolte dei singoli dei citati Monk, Navarra, Powell e di James Moody, Dizzy Gillespie, Milt Jackson, le immagini per l’epoca risultano alquanto innovative: foto o disegni in bianco e nero dei protagonisti su fondi colorati, attorno a cui intervengono ghirigori o stilizzazioni di note e strumenti; l’attenzione si fa maggiore per Monk, al quale non a caso Paul dedicherà il saggio The High Priest of Bebop nel volume collettivo The Thelonious Monk Reader (2001), quasi a ricordo di una collaborazione decennale, sfociata in capolavori di musica e di grafica: come scordarsi infatti dell’immagine del pianista via via seduto su un carretto per bambini, moltiplicato per cinque, «ridotto» a francobollo o quadro alla De Chirico? 

SILHOUETTE
Dopo Blue Note, c’è la breve parentesi con la X Vault Originals (collana di ristampe della Rca Victor) per il design di quattro importanti antologie dell’Original Dixieland Jass Band (1917), King Oliver (1929), Eddie Condon (1929) e Ethel Waters (1938) rese visivamente omogenee con tinte marròn, tra lettering classico e silhouette dei jazzmen. Ma per Bacon con la neonata Riverside Records di Orrin Keepnews e Bill Grauer, i quali anzitutto riprendono il catalogo della defunta Paramount, in grado di documentare il rigoglio jazzistico negli anni Venti. La discografia viene quasi interamente riversata su ep (extended play, di solito quattro brani per facciata) e Paul presenta in ogni copertina sia un colore sia un lettering diversi, aggiungendo solo scritte in bianco e in nero, inframmezzate dalle caricature dei jazzmen con un tratto fra il realista e il fumettistico
Il lavoro di Paul alla Riverside prosegue quindi con i 33 giri lungo un doppio binario: per la collana Living Legends (hot neworlinese e chicagoano accanto a recenti incisioni old time); e per le novità assolute con musiche che vanno dal mainstream consolidato ad aperture quasi sperimentali. Nel primo caso le soluzioni visual riguardano una linea unica, una grande foto d’epoca, virate in seppia, su un fondo di identico colore, spezzato dalle scritte in alto e da una spessa linea orizzontale dalle tinte vivaci. Nel secondo caso, invece, Bacon mette in mostra il proprio immaginifico eclettico talento, elaborando almeno una dozzina di capolavori grafici su dischi altrettanto favolosi dal punto di vista musicale, di volta in volta l’artista espone un repertorio tecnico-espressivo, in cui lo stile «pubblicitario» sposa esperienze avanguardiste, richiamando quasi l’intero Novecento. Astrazione, Bauhaus, metafisica, naïf, De Stijl, pop-art, optical, concettuale, psichedelica, vintage arrivano a comporre un mosaico grafovisivo eccezionale, che purtroppo verrà abbandonato da Bacon troppo presto a vantaggio dell’impiego nell’editoria libraria. Tornerà alla musica, in vecchiaia, solo con il primo amore, suonando di nuovo il kazoo in due buoni cd per la Jazzology Swing Me a Song (1996) e Things Are Looking Up (2002). Intanto la strada per i vari David Stone Martin, Andy Warhol, Reid Miles è ormai aperta e la copertina del jazz album diventa barthesianamente uno dei «miti d’oggi».