«Nessuno può dire cosa dà origine a un libro, tantomeno la persona che lo scrive». Ironicamente, Paul Auster indica proprio questa frase (pronunciata dal narratore di un suo romanzo, Leviatano) come potenziale epigrafe per Una vita in parole Dialogo con I. B. Siegumfeldt (traduzione impeccabile di Cristiana Mennella, Einaudi, pp. 252, € 20,00), prezioso volume scaturito da una serie di interviste che il romanziere americano ha rilasciato tra il 2011 e il 2013. Sin dalla prefazione Auster si dice «del tutto incapace» di analizzare criticamente il proprio lavoro, consapevole che «il linguaggio è sempre un’approssimazione del reale» e che quindi, «in un certo senso, tutta la scrittura è un fallimento». Ciò nonostante, stimolato da domande sempre puntuali, l’autore passa in rassegna ognuno dei suoi libri (al tempo delle interviste quattordici romanzi e cinque scritti autobiografici) raccontandone la genesi e rivelando decine di aneddoti illuminanti, spesso legati a vicende personali.

La sensazione è che Auster, superata la sessantina, abbia deciso di indossare i panni dell’investigatore – come il romanziere Quinn in Città di vetro, primo racconto di quella Trilogia di New York che, afferma l’autore con un pizzico di malinconia, «sarà sempre associata al mio nome, al di là di dove andrò e di quante altre cose scriverò» – nel tentativo di far riemergere le associazioni di idee e i processi mentali alle origini della scrittura, ma cogliendo anche l’occasione per correggere alcuni «equivoci» in cui a suo dire è incorsa la critica nel corso degli anni.

Come sanno i suoi lettori più attenti, le opere di Auster costituiscono un corpus unitario, un chaosmos governato da regole che sfidano il senso comune e che sovvertono tanto le aspettative di chi legge quanto le pianificazioni del romanziere. La musica del caso, titolo di uno dei suoi romanzi più riusciti, riassume il paradosso di un ordine nel disordine che è alla base della poetica di Auster, sempre affascinato dagli arabeschi disegnati dalle coincidenze. È lui stesso a ribadire che «ogni libro nasce da una musica interiore» e che «scrivere romanzi è come cadere in un incantesimo», trovandosi alla mercé di ispirazioni improvvise e intuizioni misteriose. Non stupisce, quindi, che frammenti di lavori rimasti incompiuti abbiano continuato a fluttuare per anni nel magma mentale dell’autore, per ricomporsi in modi inattesi nelle opere successive.

Nell’universo di Auster i confini tra le singole opere, come quelli tra i generi letterari, si sfaldano di continuo; i personaggi migrano da un libro all’altro o addirittura travalicano la pagina scritta per lamentarsi con l’autore della sorte loro riservata; oggetti e situazioni riappaiono con ossessiva puntualità (il taccuino rosso, il viaggio senza meta) dando vita a «una fitta e intricata rete di temi, luoghi, dinamiche, ansie e problemi irrisolti» che accompagna il lettore romanzo dopo romanzo. Eppure, nonostante l’estrema porosità delle barriere extra- e intertestuali, tra le immagini ricorrenti prevale quella dell’uomo recluso in uno spazio angusto (una stanza spoglia, un laboratorio, una grotta) che rimanda, con un guizzo metanarrativo, alla condizione del personaggio intrappolato nella mente dell’autore; non a caso Auster rivela che il titolo della sua prima raccolta di poesie (mai pubblicata) era proprio Captives (prigionieri) e che alle origini della sua decisione di diventare scrittore c’è una frase che scrisse di getto a vent’anni: «Il mondo è nella mia testa. Il mio corpo è nel mondo».

Una vita in parole offre un viaggio affascinante nella mente e nella vita del romanziere, insinuandosi nello «spazio che divide pensiero e scrittura» e favorendo «l’intersezione delle sfere immaginarie» dell’arte con la dimensione intima e spirituale dell’autobiografia. Scopriamo allora che il mondo post-apocalittico, cupo, degradato e palesemente finzionale in cui si svolge il primo romanzo di Auster, Nel paese delle ultime cose, è in realtà ispirato alla New York degli anni Settanta, e che le atmosfere del libro sono talmente realistiche nel descrivere una situazione di guerra che negli anni Novanta il direttore di un teatro di Sarajevo decise di realizzarne un adattamento teatrale e di metterlo in scena durante l’assedio della città.

D’altro canto, l’autore specifica che il più recente Follie di Brooklyn è un libro «volutamente scritto in forma comica» che però riflette il disgusto e il senso di frustrazione seguiti alle elezioni presidenziali del 2000 – secondo Auster «un colpo di stato illegale ‘legalizzato’ per Bush». Se è vero che la lettura di Una vita in parole può apparire ostica per chi non conosce a fondo le opere di Auster, l’immediatezza della discussione e l’universalità dei temi trattati trasformano le interviste in un entusiasmante romanzo a più voci, in cui il detective Paul Auster interroga i propri personaggi per catturare quel «frammento di verità» che è il massimo traguardo cui può aspirare ogni artista. Se non altro – nelle parole del suo nume tutelare, Samuel Beckett – potrà sempre imparare a fallire meglio.