Patty Pravo è una ragazza bionda e magra che nella metà degli Anni 60 del 1900 è arrivata a Roma da Venezia per diventare quella diva icona che ancora illumina la scena musicale italiana dopo quasi 50 anni. Patty Pravo è, quindi, la speranza realizzata della rivoluzione dei ’60 del secolo scorso. E oggi, che è nei suoi Over Sixty, si porta addosso con deliziosa civetteria quegli anni di produttiva sbandatezza e di idee che covavano la trasgressione sotto la coperta leggera di un’apparente normalità.

Nicoletta Strambelli è sbarcata al Piper, nightclub istituzionale della Roma di quel periodo, nelle fattezze di un Ragazzo triste, titolo della sua prima cover (But you are mine, Sonny & Cher) e nelle forme di un folletto asessuato che andava a genio a entrambi i sessi, eppure con un sex appeal fino ad allora sconosciuto.

Un mix di ambiguità e di dolcezza che la proietta in poche ore nell’area sospesa dell’iconicità. E lei, che arrivava da una Venezia tutta cardinale Angelo Roncalli (poi papa Giovanni XXIII) e Peggy Guggenheim (andava a casa della mecenate americana per suonare il pianoforte e per fare i compiti di scuola), porta a Roma la ribellione dei suoi tempi, della sua gracilità fisica e della sua forza d’animo, non si sa quanto convinta, o quanto coraggiosa a tentarci, che il Piper Club potesse essere una rampa di lancio per un viaggio che dal 1966 l’ha portata, così com’è, fino a oggi in questo SulLa Luna Tour.

Ma lei sulla luna c’è sempre stata e non vuole scendere, con la sua capacità trasformista che le fa cambiare look per marcare ogni fase della sua carriera. All’inizio, occhi truccati di nero e capelli gonfi e biondi, anzi biondissimi, minigonne inguinali spesso censurate per apparire dagli schermi della televisione, carica sensuale e buona dose di autoironia per accettarsi perfino nella versione androgino-transgender alla David Bowie in quegli anni dell’incontinenza creativa che l’hanno accompagnata dal decennio dell’immaginazione spaziale dei Sessanta fino a quella successiva dei Settanta permissivi.

E la Patty sempre lì, icona trasformista perché utilizzabile da vari punti di vista: è l’idolo dei gay che non sono ancora arrivati sul fronte della richiesta pubblica dei diritti e che, per questo, nel chiuso dei locali e delle feste ne copiano i gesti e anche quella voce che, in verità, non era difficile da imitare per un uomo. Ma allo stesso tempo è anche il modello per tutte quelle donne che rifiutano di rimanere chiuse in un angolo solo perché sono bionde e belle.

Così come si insinua nel sogno proibito dei maschi eterosessuali che della diva veneziana capiscono solo la possibilità di trasformarla in parola d’ordine necessaria per accedere a quella trasgressione di cui lei detiene il segreto. Perché Patty lo ha sempre detto chiaramente: è vero che mi fai girare come fossi una bambola, ma il gioco lo conduco io, e ti porto in spazi che, senza di me, non esploreresti mai. Molto più tardi, dirà: «La bambola la cantai divertendomi».

Sarà anche per questo che la sua vita sentimentale non ha avuto la stabilità che, forse, la ragazza del Piper richiedeva: tra fidanzamenti inadeguati al suo modo di concepire la libertà personale e i matrimoni sbagliati (sposa il batterista Gordon Fagetter, poi l’arredatore Franco Baldieri che lascia poco dopo, nel 1972, per allacciare una relazione con Riccardo Fogli dei Pooh), non si può certo dire che la tranquillità sentimentale fosse quella usuale nell’Italia bacchettona.

E forse solamente perché i maschi eterosessuali si spaventano delle avventure, soprattutto se a proporgliele sono le donne. E specialmente se a farlo è una donna come Patty Pravo che ha nel suo cognome il significato pericoloso dell’anima prava (malvagia) dantesca. «Pensiero stupendo nasce un poco strisciando»: non che gli uomini che frequentava o che la guardavano ai concerti o alla tv potessero immaginare questa pravezza, ma a spaventarli è la sua indipendenza che li rende succubi. La voce stessa è allusiva, ambigua come e forse più ancora dei contenuti dei suoi pezzi e loro restano attoniti, incapaci di controllare una situazione che li porterebbe lontano, fino alle mete in cui perderebbero il controllo di sé.

Mentre lei, invece, quei limiti li supera facilmente, anche aiutata dal suo modo di vestire, dai suoi look che via via si dirigono verso quel glamour francese sconosciuto al piccolo schermo italiano, per cambiare ancora e farsi, man mano, quasi stregonescamente misterici per aderire a quel trasformismo delle origini che la rese icona prima che diva.

Nel frattempo, Patty si lascia alle spalle i servizi fotografici per Playboy ma anche l’aria svagata e distratta di un personaggio che alterna disattenzione e giudizi competenti, taglienti e forti, e assume sempre più decisamente il ruolo che il suo pubblico man mano le aveva cucito addosso, canzone dopo canzone, concerto dopo concerto, con titoli e nomi dall’improbabilità allusiva come la canzone Pensiero stupendo (1978) o il tour Notti, guai e libertà (1998) nato dopo la dichiarazione di …E dimmi che non vuoi morire (1997).

Ed eccola oggi qui, con addosso tutte le sue parti, con il ricordo della voce anomala, con la r che si arrotonda sempre di più in un vezzo che è l’accento del senso classico dell’icona, del riferimento e del mito che si rigenera, vestito spesso con l’ambiguità di giacche maschili adagiate sotto la chioma bionda, anzi biondissima, mentre le braccia si muovono plastiche e leggiadre a descrive cerchi in aria di indubbia e liberatoria perversione. E si capisce perché i suoi concerti fanno proseliti anche nell’era del digitale. In fondo, dall’era dei 45 giri, la sua voce invita ancora a una trasgressione che neanche la più audace delle App (o delle chat) può promettere.