Oggi, sul tavolo dei ministri delle Finanze riuniti a Bruxelles, avrebbe dovuto campeggiare la proposta di accordo sulle nuove regole del Patto di Stabilità promessa e dalla presidenza di turno spagnola del Consiglio Ue. Non ci sarà. Tutto rinviato all’8 dicembre, quando Ecofin tornerà a riunirsi. A quel punto il tempo sarà davvero agli sgoccioli, con il 31 dicembre alle porte e la necessità di decidere sul da farsi in mancanza di intesa. L’ipotesi prediletta dall’Italia, quella di una proroga della sospensione del Patto, è fuori discussione. Resta la chimera di una sorta di ponte, un “diversivo” ancora tutto da inventare per coprire la falla evitando di tornare dal primo gennaio alle vecchie regole. Ma anche qui il commissario Gentiloni gela molte illusioni: «Se si raggiunge un accordo ci sarà una fase di assestamento, altrimenti tornano in vigore le regole precedenti e il tempo non è illimitato». In concreto, anche la possibilità di immaginare qualcosa per la fase di transizione dipende dal raggiungimento o meno di un accordo entro il 2023.

Il massimo che, salvo sorprese, i ministri potranno fare oggi è mettere in campo ipotesi di soluzione dei due nodi che ancora impediscono di chiudere la partita, propedeutiche alla eventuale presentazione di un testo legislativo definito nel prossimo vertice. Uno di quei due punti riguarda direttamente l’Italia. È la richiesta di scomputare dal calcolo del deficit le spese strategiche, quelle cioè per la transizione verde e digitale, e quelle per il sostegno all’Ucraina. Le chances di successo italiano sono ridotte all’osso. Il mantra della Germania, per non parlare dei “frugali”, si ripete martellante: «Buono o cattivo che sia il debito è sempre debito». Come si sa, quella del «debito buono» era la posizione fortemente innovativa messa in campo da Draghi, la cui delusione traspare dall’intervista che l’ex premier e ex presidente della Bce ha rilasciato ieri al Financial Times: «O l’Unione agisce insieme e diventa una Unione più profonda, capace di esprimere una politica estera comune e una politica economica comune, oppure non sopravviverà che il mercato unico».

Il secondo e principale nodo è l’insistenza della Germania e dei Paesi nordici perché siano fissati parametri espliciti per la riduzione del debito dei Paesi con i conti in rosso più acceso, categoria nella quale l’Italia figura al secondo posto. La richiesta tedesca continua a essere una riduzione annua dell’1%. Per l’Italia sarebbe più o meno il colpo di grazia. Negli ultimi due giorni si sarebbe aperto uno spiraglio, grazie a una proposta di mediazione congiunta francese e spagnola. L’ipotesi è quella di scorporare il rientro dal debito, che comunque il nuovo parametro confermerà entro il 60% del Pil, e quello dal deficit, fisso a Maastricht, cioè a un rapporto debito/Pil non oltre il 3%. La seconda voce, il rientro nei parametri sul deficit, avrebbe la priorità. Per l’Italia, se non la salvezza, sarebbe una boccata d’ossigeno, però pagata a carissimo prezzo.

L’Italia ha posticipato di un anno, dal 2025 al 2026, il rientro nel parametro sul deficit. Ma l’ipotesi si basa su previsioni che nessuno ritiene credibili, in particolare una crescita dell’1,2% l’anno prossimo. L’outlook di ieri del Fmi è solo l’ultima voce in ordine di tempo a prevedere una crescita molto inferiore, dello 0,7%. Il Fondo bacchetta anche la legge di bilancio. Consiglia infatti di «anticipare l’aggiustamento nonché di pensare a riforme di bilancio strutturali e favorevoli alla crescita, che non sono previste nella bozza di bilancio 2024».

Di fatto l’ipotesi francospagnola imporrebbe quindi all’Italia di procedere subito, già dalla prossima primavera o al più tardi dalla prossima manovra, con tagli importanti al bilancio, che renderebbero impossibile confermare il taglio del cuneo fiscale e figurarsi misure nuove e ambiziose. Insomma, lacrime e sangue.