Le dita levate in alto nel segno della P-38 sono apparse alla fine, quando Patti Smith si è lanciata addirittura in un pezzo rhythm and blues, forzando la sua voce (già incantevole, già fascinosa, già inquietante) verso intonazioni «negre». Sono venute in mente, filtrate da un inevitabile distacco, due possibili reazioni: «finalmente» e «ma questi che vogliono». «Finalmente», perché lo spettacolo si faceva per quello, per la celebrazione di un rito che sancisse corrispondenze tra desideri di sovversione e musica, tra una folla di trasgressori e la musa della trasgressione. E fino a quel punto niente di tutto ciò era entrato nella scena troppo poco terrificante dello stadio comunale di Bologna.
«Ma questi che vogliono», perché l’esecuzione musicale era in quel momento più vicina che mai a sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda della «norma». Patti si mostrava più ancora che in altri passaggi del concerto musicista e donna stanca di ricerca e di introspezioni e di interrogativi e di desideri. Capace, però, di provocazioni un po’ aspre, un po’ disperate. Provocazione era cantare in quel modo, abbandonando del tutto la felice «polivalenza» della sua pronuncia, tra infantile, erotica e demoniaca, provocazione era citare l’inno americano e far issare alle proprie spalle un’enorme bandiera a stelle e strisce (una Nashville altmaniana senza il colpo di pistola risolutore). Quando meno ha trasgredito, con i modi che le sono propri, con la politica del sé, del corpo, della diversità, proprio allora Patti Smith ha suscitato il rituale e il gioco della volontà politica rivoluzionaria (o insurrezionale, che non è esattamente la stessa cosa).
Patti Smith, la cui stagione creativa non ha potuto che essere precaria, perché tutta giocata sulla contraddizione tra il canone del rock (nei brani del suo gruppo quanto mai elementare) e le aperture e rotture nel corpo del rock, ha cantato a Bologna un rock tutto sommato «unidimensionale». Non certo per questo era stata definita cantante del movimento, ma quella parte di movimento che ha avuto voglia di farsi notare a Bologna, ha colto come messaggio valido (o utile) il rinchiudersi, l’impoverirsi, il restringersi del suo messaggio. Ha così espresso, insieme a Patti, la sua propria unidimensionalità. O, forse, Patti l’ha costretta a rivelarla.
E il resto del pubblico? Quello che non si era conquistato, entrando alle tre del pomeriggio nello stadio, previo sfondamento dei cancelli, la porzione di prato davanti al palco dove erano piazzati gli attori più vivaci del movimento? Era movimento oppure no quest’altra parte del pubblico? E, se lo era, perché non si è fatta coinvolgere da Patti Smith? Risposte troppo solenni forse non è il caso di darne, dato che, soprattutto, questa parte del pubblico era fatta di esclusi dalla fruizione e dal consumo della musica che veniva suonata. Per il motivo banalissimo che poco ne arrivava a chi era lontano più di centocinquanta metri. Però qualche umore significativo doveva esserci in questo ottanta per cento di spettatori. E doveva essere all’origine della tristezza che si leggeva sui volti di quasi tutti quando, dopo code e pigia-pigia disumani, hanno preso la via del ritorno da questo meeting cui troppe speranze erano state affidate. «Vado a sentire Patti Smith perché mi prende… mi prende e basta… voglio vedere se è diversa da quando l’ho ascoltata a Central Park», aveva detto sul treno dell’andata un ragazzo. Poi si era messo con voluttà a raccontare della metropolitana di New York letteralmente ricoperta di graffiti, dei muri dì New York inondati di scritte che possono essere «basta col fascismo» o «poliziotti porci» oppure un «no» largo sei metri per sei.
Magari quella parte di movimento che si è rifiutata di apparire tale allo stadio di Bologna sta ruminando un’idea di rivoluzione di linguaggio, di fantasia, di colore, di ambigua tenerezza, di violenta eccitazione metropolitana, di liberazione dell’eros e del gesto. Magari questa idea, confusamente, si aspettava di trovare in qualche modo illustrata al concerto di Patti Smith. L’ultima maniera della «sacerdotessa del rock», e anche, l’efficiente segregazione, l’automatica ma organizzata divisione in compartimenti stagni che la gente ha dovuto patire allo stadio di Bologna, devono aver tenuto lontano quei desideri e quelle immagini. Forse c’è stato spazio soltanto per la politica a una dimensione, quella di sempre.
Oppure ha ragione Bifo, che non ha senso cercare ancora un senso nei movimenti, che il Potere (lui lo scrive tuttora con la P maiuscola) detiene ormai anche il linguaggio «trasversale», e quindi ci si sottrae ad esso solo ribadendo la propria inesistenza come sogg
etti? La propria «demenza»? (11 settembre 1979)