Patrizia Cavalli giocava con il suo nome, come sempre con le parole – con la stessa naturalezza con cui il ragno tesse la sua tela: «Elsa (Morante), per prendermi in giro mi aveva ribattezzato Somara Plebea», scherzava. Io invece la chiamavo la mia ‘cavallina’. C’era un aspetto che in lei particolarmente amavo, la testardaggine. Che si univa a una caparbia insolenza, addolcita e corretta da una immensa generosità. Riusciva a farmi arrabbiare quando si incaponiva nelle sue implacabili ossessioni, ma anche mi incantava la sua intelligenza audace e così istintiva e unica ed eccentrica.

A volte, a proposito delle sue magnifiche traduzioni di Shakespeare, abbiamo litigato; no, non è proprio così, dicevo io, e lei ascoltava e si incupiva, perché non le piaceva essere contraddetta, ma poi saltava su con una soluzione geniale, che mandava all’aria ogni mia più prudente scelta. Patrizia aveva un gusto perfetto della lingua, un vero e proprio genio linguistico che non necessariamente e non sempre è dote del poeta.

Si può fare poesia con meno. Ma Patrizia no, faceva poesia così; e cioè, nello scatto creativo di chi inventa nuove architetture linguistiche in cui per l’appunto far cadere la vita, la vita vera, la vita del pensiero, la vita dell’emozione. Chi è creativo crea se stesso, insegnano i veri poeti. La ‘cavallina’ lo ha fatto, e nel suo passaggio ci ha donato la grazia di versi indimenticabili, e la bellezza della sua stessa esistenza, generosa, spavalda, vissuta con slancio e libertà. Unica.