Alla fine degli anni Trenta, Parigi cedette a New York il ruolo di meta privilegiata della comunità intellettuale e artistica europea, specialmente di coloro che non si conformavano al nuovo ordine mondiale instaurato dalle divisioni corazzate della Wehrmacht. Se un tempo scrittori come Henry James e Edith Wharton, Hemingway, Eliot e Pound sentivano di dover approdare al vecchio mondo per completare la propria formazione, ora gli intellettuali europei, da Auerbach a Stravinskij, da Mondrian a Adorno, cercavano scampo all’ombra della Statua della Libertà.

Non erano solo gli intellettuali ebrei a traversare l’Atlantico: emigravano anche coloro che il regime nazista perseguitava in quanto irrispettosi dei ruoli sessuali finalizzati alla riproduzione, che doveva dare combattenti al Reich. Di qui la diaspora delle tante artiste e intellettuali lesbiche che trovarono rifugio sulle rive del fiume Hudson, dando vita a una comunità vivacissima; un’idea di questo mondo ci viene dalla prima metà dei Diari e taccuini 1941-1995 di Patricia Highsmith (a cura di Anna Von Planta, traduzione di Viola Di Grado, La nave di Teseo, pp. 1096, € 40,00), nei quali l’allora ventenne scrittrice, ancora non resa famosa dall’adattamento hitchcockiano del suo romanzo Sconosciuti in treno, tiene traccia delle relazioni sentimentali, erotiche e intellettuali che intreccia freneticamente nella bohème newyorkese degli anni Quaranta.

Riflessioni e pettegolezzi
Attraverso notazioni brevi, appunti, riflessioni e occasionali pettegolezzi, ripercorriamo con quella che amici e amanti chiamavano Pat una vera e propria iniziazione omosessuale, artistica (Highsmith si dedicava anche al disegno e alla pittura), letteraria. Per la formazione della scrittrice che avrebbe inventato il personaggio di Tom Ripley quella stagione fu cruciale: non a caso, metà del ponderoso volume copre il periodo che va dal 1941 al 1950, mentre l’altra metà raccoglie le note dei quarantacinque anni successivi.
I Quaranta sono anni di scoperta, di fulminei innamoramenti, di incontri inaspettati, in una città che era al culmine della sua prosperità e della sua vivacità artistica – spesso Highsmith parla di mostre che ha visitato, apprezza le tele di un giovane pittore irlandese di nome Francis Bacon, le capita di cenare col grande clavicembalista Ralf Kirkpatrick, scopre la narrativa di Julien Green, va alla storica mostra «31 Women» organizzata da Peggy Guggenheim nel 1943 (tra quelle donne Frieda Kahlo, Djuna Barnes, Louise Nevelson). Tutto si svolge nella cornice di una Manhattan decisamente tollerante nei confronti delle «donne in pantaloni» (come le chiamava Highsmith) e dei gay. Sarebbe peraltro ozioso dividere l’intreccio strettissimo delle relazioni artistiche da quelle personali, facilitate dall’esistenza di un milieu lesbico di alto livello intellettuale, ricostruito nell’appendice al volume firmata da Karen Shenkar.

Lontana dai campi di battaglia della Seconda guerra mondiale (quel che accade in Europa e nel Pacifico viene menzionato di rado e assai rapidamente), per Patricia Highsmith gli anni Quaranta si configurano come una sorta di età felice, sebbene già si allunghino ombre che si faranno più cupe e opprimenti a partire dagli anni Cinquanta. Sono tante le donne con cui Highsmith stringe relazioni intense, ma poche durano, e spesso all’entusiasmo iniziale fanno seguito delusioni cocenti. Nell’ambiente relativamente tollerante del Village, l’ipotesi di un matrimonio di copertura, sul modello di quello tra Virginia Stephen a Leonard Woolf, veniva di tanto in tanto presa in considerazione dalla giovane aspirante scrittrice, costretta peraltro nel 1952 a pubblicare sotto pseudonimo Carol, un romanzo che osava raccontare un amore tra donne a lieto fine.

Alle difficoltà di farsi strada nel mondo letterario, con le prime faticose pubblicazioni di racconti, si univa la sensazione di un cambiamento incombente e inquietante: la stagione della tolleranza – non solo rispetto alle scelte in materia sessuale, ma anche politiche – volgeva al termine. Con l’arrivo del maccartismo e delle commissioni di inchiesta che avrebbero perseguitato attori, scrittori, intellettuali, gente comune, Highsmith comincia a viaggiare verso il vecchio mondo.

Discontinuità dei taccuini
La scrittura dei diari e dei taccuini si fa più frammentaria e discontinua proprio quando la sua carriera letteraria decolla. Tra un’annotazione e l’altra passano settimane, se non mesi, ed è interessante vedere come la tradizionale figura dell’expat, dell’americano in Europa, si sia trasformata: non più l’innocente jamesiano che si confronta con la sofisticazione ma anche con la corruzione europea, bensì la scrittrice queer e del tutto anti-convenzionale alla ricerca di scampo dal conformismo e dal moralismo neopuritano che infuriano in America.

È in questa temperie che nasce il personaggio più famoso di Highsmith, Tom Ripley. Leggendo i diari si trova conferma di quanto già s’intuiva nei cinque romanzi della cosiddetta Ripliad: Ripley è la stessa Pat sub specie literaria. Le coincidenze tra i viaggi e le residenze della scrittrice e quelli del suo personaggio, dalle pagine del Talento di Mr. Ripley a quelle di Ripley sott’acqua, sono eloquenti. Mentre Ripley è un dilettante dell’arte che è riuscito, tra un omicidio e l’altro, a realizzare la vita che sognava, Patricia Highsmith è una scrittrice professionista che, a fronte dei suoi ripetuti tentativi di creare un legame stabile e trovare la dimora ideale, ha continuato a cambiare compagne e residenza fino agli ultimi anni di vita (ricorrenti nei diari le preoccupazioni per vendite e acquisti di case, fino a quella che si fa costruire nel Canton Ticino; ricorrenti anche le considerazioni amare sulle relazioni amorose che si guastavano).
Forse, proprio l’occhio dell’espatriata americana sull’Europa del secondo dopoguerra restituisce il fascino maggiore di queste scritture tra l’autobiografico e il letterario: come già il ciclo della Ripliad ci presentava Italia, Francia, Germania, Inghilterra in modo tutt’altro che stereotipato e turistico, anche nei taccuini si trovano passaggi notevoli di scrittura paesaggistica, che attestano l’occhio pittorico di Highsmith. In un appunto del 1943 sostiene che «ogni artista possiede un nucleo» inaccessibile persino a chi l’ama: sebbene non lo lascino penetrare, queste pagine ce lo avvicinano.