Un libro è «un grand cimetière où sur la plupart des tombes on ne peut plus lire les noms effacés»: così recita l’epigrafe, tratta dalla Recherche di Proust, dell’ultima raccolta di poesie di Boris Pasternak. Alla soglia dei settant’anni, l’autore sa di essere sopravvissuto per caso a tanti amici e sodali «martoriati vivi»: gli è toccato piangere e «imbalsamare» nei suoi versi Majakovskij e Cvetaeva e Blok e un lungo elenco di nomi ormai cancellati (i noms effacés dell’epigrafe). In uno dei componimenti (Anima), che aprono la raccolta appena uscita da Passigli con il titolo Quando rasserena (a cura di Alessandro Niero, cui si deve anche una ampia introduzione, pp. 192, € 19,50), poiché la sua anima corrucciata gli ricorda l’urna che di quei martiri custodisce le ceneri, il poeta la esorta a trasformare fino alla fine il mesto terriccio cimiteriale in versi dotati di linfa impudente.

Più che il respiro della morte, nell’ultimo libro di Pasternak aleggia la calma esterrefatta di chi sa di aver adempiuto il proprio destino. Una quiete non più alterabile, che conferisce a queste pagine tonalità tutt’altro che lugubri. Basti pensare al titolo del volume, (in originale Kogda razguljaetsja): allorché i giochi sono fatti, il tempo sembra mettersi di nuovo a bello. Appena terminata la decennale fatica per comporre Il dottor Živago, considerato dall’autore la sua opera principale, «l’unica di cui non vergognarsi», tra il 1956 e il 1959 Pasternak – forse non ancora del tutto accomiatatosi dal suo alter ego romanzesco Jurij Živago – scrive i versi confluiti poi in Quando rasserena.

La formula delle passioni
Sono anni segnati da vicende ben note: il divieto di pubblicare il romanzo in patria, la sua uscita nel 1957 presso Feltrinelli in Italia, il conferimento del premio Nobel, cui però l’autore è costretto a rinunciare. Anni gracili in cui a Pasternak tocca in sorte la posizione ambigua e assai poco rassicurante del «villeggiante« (dacnik, come lo definì Nadežda Mandel’štam, riferendosi alla sua ventennale residenza nella dacia di Peredelkino, nei dintorni di Mosca), risparmiato dall’apparato statale e tuttavia mai perdonato, alle prese con un armistizio dai contorni indefiniti.

Il libro di poesie scritto dopo il romanzo famigerato, Pasternak non lo vedrà uscire: ammalatosi all’improvviso, morirà di lì a poco, nel 1960. Alcuni componimenti estrapolati da questa raccolta – i più inoffensivi, va da sé, per lo spirito pubblico sovietico – avranno lunga vita in innumerevoli antologie, diventando con un tocco di obiettiva ironia i versi di Pasternak più noti e popolari tra il grande pubblico russo.

È ben vero, d’altronde, che mai come in questo libro l’autore si spoglia di ogni residuo snobismo. Sua massima ambizione è l’umiltà, che passa per la ricerca di una lingua dimessa, colloquiale, comprensibile anche e forse soprattutto dai più poveri di spirito.

Un poeta le cui radici affondano nel cubofuturismo, che negli anni Venti sembrò imparentato a Mandel’štam per la spiazzante complessità delle sue metafore, perviene qui alla «inaudita semplicità» di versi disadorni, cristallini, confidenziali, affini all’aria tersa dei paesaggi autunnali che talvolta evocano. C’è chi attribuisce questa svolta a un manierismo senile, che esaspererebbe, senza nulla aggiungervi, la prospettiva testamentaria da cui sono pervase le poesie del dottor Živago, contenute nell’appendice al romanzo. Altri però riconoscono in questa inflessibile «semplicità» il naturale punto d’arrivo dell’intera parabola poetica di Pasternak. Altri ancora vi scorgono un nuovo inizio, sorprendente e degno di speranza, subito stroncato dalla morte. Un campo di battaglia per la critica, insomma.

Quando rasserena è un libro che intreccia e talvolta fonde assieme, nella maniera inconfondibile che fu del poeta, l’etica alla meteorologia, la botanica alla metafisica. Si apre con la celebre dichiarazione d’intenti (In ogni cosa ho voglia d’arrivare), che esibisce l’inclinazione filosofica della poesia di Pasternak: di cose ed eventi bisogna cogliere il nocciolo duro, ossia l’essenza; delle scelte, l’ordito sostanziale; delle passioni, la formula breve. Segue poi, aforistico e non meno celebre, «Essere rinomati non sta bene. // Non è così che ci si leva in alto»: un appassionato decalogo dei doveri morali dell’artista, che verte sull’opportuna rinuncia all’ego ingombrante e smanioso, nonché su una onestà con se stessi che ha qualcosa di spietato. Il compito da assolvere con meticolosità, per un uomo che tra l’altro è anche poeta, consiste nell’«essere soltanto vivo, vivo // soltanto, fino in fine». Non a caso il cognome scelto per il protagonista del romanzo, Živago, significa ‘vivo’, ‘vivente’. Restare senzienti e vigili in mezzo a schiere di «filistei e ottimisti», con questa esortazione si chiude la poesia Notte: «Artista, non dormire, non dormire, // non consegnarti al sonno. // Tu sei un ostaggio dell’eternità, // prigioniero del tempo».

L’etica irta di mille sottigliezze dell’«essere vivi» fa tutt’uno, per Pasternak, con la capacità di darsi senza riserve alla passione amorosa: la devozione e l’adorazione per la donna sono reputate dall’autore una impresa eroica. Ma è prova di indiscutibile ardimento anche l’«essere donna», osando soggiogare a sé la forza maschile. La destinataria della lirica amorosa più esplicita della raccolta, Senza titolo, è Ol’ga Ivinskaja, la compagna di Pasternak nei suoi ultimi tredici anni di vita. Una relazione costellata da fughe e rincorse che, dopo il ritorno di Ol’ga dal gulag nel 1953, non fu più clandestina, senza tuttavia mai prendere la forma della convivenza, essendo il poeta fino all’ultimo rimasto accanto alla moglie Zinaida Nejgauz.

Fin dal titolo – che fa eco al «disgelo», nome immaginifico degli anni della destalinizzazione – Quando rasserena è un libro segnato, scrisse Ripellino, da «vicende meteorologiche»: geli e disgeli, certo, e poi bonacce, tepori, nebbie, insomma l’infinita varietà di fenomeni atmosferici e di sfumature cromatiche stagionali. Anni addietro Cvetaeva aveva dedicato a questa propensione del poeta lo scritto Pasternak e la pioggia, notando che, a leggere i suoi versi, si ha l’impressione di muoversi sotto un fitto acquazzone. Nessun altro poeta, diceva Cvetaeva, canta la natura così «a bruciapelo», evitando di ridurre il paesaggio a sfondo o specchio dell’«io».

Se nelle opere giovanili di Pasternak le nevicate erano ancora intrise d’amore, e le piogge cariche di rimpianto o di nostalgia, nell’ultimo libro il mondo è percepito come un «vivente prodigio» del quale colui che scrive vuole rendere testimonianza, sforzandosi di non far avvertire al lettore la sua presenza, di mostrare il paesaggio come esso appare quando lui, il poeta, non c’è. Sono dunque gli alberi, il vento, la neve, le stagioni a diventare il soggetto lirico, non umano ma antropomorfo, di molte poesie. A tal punto è forte il desiderio di fare a meno del proprio «io», cedendo il suo posto a rami e meriggi, che in Brinata l’autore suppone siano gli alberi a farsi una immagine di lui che cammina nella nebbia.

Due ardui confronti
Non a caso, dunque, un senso di sollievo si impadronisce del protagonista di All’ospedale alla notizia della prossima fine, inducendolo a prorompere in una preghiera di gratitudine. Sempre con una preghiera, questa volta suscitata dalla meraviglia per l’esistenza stessa del mondo – meraviglia nella quale sembrò a Wittgenstein di scorgere un’autentica esperienza miracolosa – si chiude la poesia che dà il titolo alla raccolta, Quando rasserena.

Quasi la metà delle poesie contenute in questa prima edizione italiana completa del libro fu tradotta da Angelo Maria Ripellino per l’antologia einaudiana, pubblicata nel 1959. Alessandro Niero ha dunque dovuto confrontarsi, coraggiosamente, con ben due originali: quello russo e quello italiano, costituito dalle traduzioni del «quasi inarrivabile», per ammissione dello stesso Niero, suo predecessore.