Fra le poltrone azzurro mare del Teatro Miela di Trieste, casa del festival I Mille Occhi ideato e «messo in scena» da Sergio M. Germani, lo sguardo, solo all’apparenza legnoso della statua del triestino «adottato» James Joyce sembra quasi volersi perdere davanti allo schermo costantemente attraversato dalla flagranza del cinema e dei suoi echi. Tra le tante suggestioni della rassegna, gli ultimi giorni si sono arricchiti con l’omaggio al regista tedesco Frank Wysbar o Wisbar. E’ così che la storia del cinema ha tramandato questo cineasta dalla filmografia divisa in due non soltanto nominalmente, visto che lo sdoppiamento grammaticale ha solcato una carriera prima e dopo il nazismo. Emerge chiaramente, nelle due serate dedicate a un parziale recupero della sua filmografia, un’altra scissione, quasi un preludio, fin dai primissimi film prodotti e diretti sotto la Repubblica di Weimar, a un cinema «dissociato», alla ripetizione ossessiva di una folie à deux dove trascendenza e tragedia sembrano fondersi senza soluzione di continuità.

 
La prima serata dedicata al regista tedesco è stata emblematica nella scelta di due film «ripetitivi» e quasi speculari: Madchen in Uniform e Anna und Elisabeth, girati rispettivamente nel 1931 e nel 1933. Del primo, Wysbar ricopre il ruolo di produttore, il secondo invece segna l’inizio della sua carriera registica, che si concluderà all’inizio degli anni ’60 dopo numerose peregrinazioni fra Europa e America. Trait d’union e specchio delle due pellicole, proiettate in 35millimetri, la straordinaria coppia di attrici Hertha Thiele-Dorothea Weick.

 

 

Madchen in Uniform, diretto da Leontine Sagan e Carl Froelich, racconta l’educazione femminile in un collegio di Potsdam, dove vige un rigore quasi militaresco, della giovane Manuela, fanciulla sensibile e introversa che si innamora perdutamente di una delle insegnanti fino al tragico epilogo gravido di senso di colpa e frustrazione. Considerato il film-pioniere della cinematografia lesbica, dove la repressione e la disciplina sono le brutali fautrici di morbose pulsioni saffiche, si è forse dimenticata, nel corso del tempo, la potenza tragica di una sorta di prologo alla prossima oppressione nazista e, allo stesso tempo, di spietato ritratto degli echi di un’aristocrazia prussiana ormai disintegrata.

 
Anna und Elisabeth racconta invece della veglia di preghiera al capezzale del fratello in coma di una ragazza, Anna, che assiste all’insperato risveglio del congiunto e molto presto, nella piccola comunità, si grida al miracolo e alla santità della giovane. L’eco raggiunge la casa della paralitica Elisabeth che vince lo scetticismo della giovane Anna e la prende in casa con sé fino a riacquistare l’uso delle gambe. A questo secondo miracolo il destino di Anna sembra segnato ma il fallimento di un terzo «salvataggio» scatenerà la follia di Elisabeth nel tentativo di donare nuova credibilità alla giovane santa.

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Di nuovo un duetto d’amore e di pazzia, una sorta di Carl Theodor Dreyer espanso, come ci suggerisce il catalogo del festival, un film che sembra quasi colmare la distanza temporale e poetica fra Vampyr e Dies Irae e regalare l’illusione di un ponte cinematografico fra espressionismo e trascendenza. Che giunge a una sorprendente e insperata corrispondenza nella mattinata di ieri dove l’odore di santità, e i riverberi del cinema, si sono nuovamente espansi in un film italiano del 1946, Lo sconosciuto di San Marino. Sceneggiato da Cesare Zavattini e Vittorio Cottafavi, il film si apre al crepuscolo della Seconda Guerra Mondiale quando un uomo senza identità e senza passato giunge alle pendici del Monte Titano insieme a un gruppo di sfollati in cerca di rifugio.

 

 

Nella piccola, accogliente e neutrale comunità sammarinese, lo sconosciuto sembra piano piano illuminare di sacralità prima un’ateo autoritario e contrario alla religiosità della giovane moglie, un sempre splendido Vittorio De Sica, poi una Anna Magnani donna di vita, Maddalena in cerca di redenzione, al punto di illudere il prete che forse il Messia è ritornato ancora sulla terra. In un carosello fatto di compagnie girovaghe polacche e di orfanelli in cerca di casa, poco dopo la notizia dell’Armistizio, lo sconosciuto riacquista la tragica memoria di un passato nazista e si troverà costretto a scegliere fra oblio ed espiazione.

 

 

Nel film, diretto da Michal Waszynski e Vittorio Cottafavi, la presunta santità dell’inconnu, illuminata dal volto trascendentale di Aurel Milloss, sembra quasi anticipare il Johannes Borgen di Ordet, anime che, come I Mille Occhi, combattono con le armi della tenerezza, della bellezza dell’imperfezione e della pazienza gli ostacoli, e la follia, che la Storia spesso frappone all’Uomo.