Che cos’è che si cerca in un cantautore o cantautrice, cioè nelle loro canzoni? Non sarebbe sbagliato farsi una domanda del genere quando si ha a che fare con la musica cosiddetta leggera. Rappresenterebbe quantomeno un qualcosa di più preciso rispetto al solito ping-pong «è poesia», «non è poesia» che non risolve nulla, ma rischia solo di rendere desolante il pensiero di chi prova a giudicare il valore di un brano, se non addirittura di un’opera. Ciò detto, alla domanda di cui sopra si potrebbe rispondere in diversi modi. Uno, forse un poco sbrigativo ma anche fra i più interessanti, potrebbe essere il seguente: si cerca quello che non si trova. E cioè qualcosa che possa, quantomeno, sorprenderci. Per questo o quell’elemento, se non per l’insieme.
Ora, ascoltare le dieci composizioni del nuovo disco di Giacomo Toni, Ballate di Ferro (etichetta: L’Amor Mio Non Muore), è una esperienza potenzialmente in linea con quanto detto, quantomeno per come emergerebbe la miscela che tiene insieme le varie tendenze della scrittura: un amalgama che sembra volutamente non compatto come si converrebbe, simile quindi ad una trama non uniforme, che lascia spiragli, aperture. Ne si notano alcune tra le aspettative che si possono avere in base a determinati sviluppi musicali, presenti in questo o quel pezzo, e le possibili dissonanze causate da certe, inusuali, scelte testuali.

UN DIFETTO? A conti fatti, si direbbe di no. È una caratteristica che, giocoforza, colpisce. Al riguardo, val la pena citare quanto dice lo stesso Toni in una intervista in rete, a «Gagarin Magazine»: «Se ho una cifra, è quella del contrasto, proprio perché il mio mezzo è il pianoforte. Credo che, quando si crea un contrasto, possa succedere qualcosa. È un gioco: ai miei amici le ballate non piacciono, ma queste sì, perché uso certe parole, tipo “puttane”, ma in realtà stanno ascoltando una ballata». Passando al tema del disco, non si potrebbe far altro che indicare l’amore come leitmotiv in tutti i brani. Decantato più che cantato, sostanzialmente egoistico, orientato verso una presenza femminile oggetto non tanto di narrazioni quanto, invece, di impressioni (Gianni; Gli autobus), allusioni (Qualcosa di povero; Buongiorno), ma anche di passaggi che – per così dire – sono tutt’altro che idilliaci. Nel merito, si potrebbe citare il finale di un brano come «Mogli ingrate»: «volano gli stracci/ di tutte le città/ e mai nessuno che perdoni/ un uomo solo che ha fatto i milioni/ non ci resta che continuare a fare a botte/ con le bambine spettinate/ coi ragazzi malvestiti/ e con le nostre mogli ingrate// Nichi un bel giorno si alzò/ prese tutte le carte di credito/ e con le mani macchiate di sangue/ andò in cerca di un bancomat.» Oppure, per stare nel lirismo meno descrittivo e più soggettivo, lo stesso discorso potrebbe valere senza troppi problemi per la chiusa di «Mah»: «Mah/ forse è solo vanità/ tra tutti i miei libracci e paroloni/ prenditi le tue libertà/ ma/ non mi rompere i coglioni.»

SE POI SI VOLESSE provare a connotare quanto detto in un senso poco più astratto, una risposta possibile la si troverebbe già nel titolo del disco, con quel «di ferro». In generale, l’uso che Giacomo Toni fa del termine in questione è un uso tendenzialmente metaforico. Parlare di ferro evoca una sensazione che vale come una sorta di antidoto estetico a tutto ciò che, nell’amore, suonerebbe sdolcinato, e per questo – probabilmente – artificioso. Quelle del nostro sarebbero allora «parole di ferro», come lui stesso dice in Se proprio devo, singolo uscito in anteprima (lo accompagna un bel videoclip a firma dell’illustratrice e animatrice Mara Cerri). Tuttavia, come si sa, il ferro evocherebbe anche qualcosa di più, come – per esempio – un immaginario certamente non conciliante. E quindi, di riflesso, nel bene e nel male, una personalità poco incline a sentimenti anemici.