Chi conosca soprattutto la saggistica di Mircea Eliade – storico, fenomenologo, filosofo delle religioni, o come si voglia definire questo geniale e controverso personaggio – si accosterà al suo romanzo Maitreyi Incontro bengalese – scritto nel 1933, poi riproposto nel 1969 e adesso ripubblicato nella traduzione italiana dal romeno di Iuliana Batali Ciarletta (Calabuig, pp. 208, euro 16,00) con un misto di curiosità e di pregiudizio. È una storia d’amore molto passionale, dove circola un eros acceso, e il cui epilogo si fa tragico. Ma la scrittura non riesce a tradurre compiutamente in parola né l’amore né la tragedia: dichiara invece quale sia il suo tema, esplicita i fatti senza poterli far rivivere dall’interno dell’invenzione linguistica e narrativa.

Un metatesto leggendario

Eliade è lettore troppo raffinato per non accorgersene: di qui la dichiarazione continua della povertà della scrittura diaristica, dalla quale Allan, il protagonista che offre in prima persona il racconto, dice di trarre qualche ricordo, che tuttavia non parla più e ha dunque bisogno di tornare vivo nell’opera letteraria.

Preso dalla consapevole insufficienza delle sue pagine, spesso ricorre a espressioni come: «Era un’apparizione da leggenda, da fiaba orientale, la sua forma quasi nuda fra i grappoli dei fiori»; oppure «con quel profumo di gelsomino che mi suggeriva la bocca di Maitrey … Vidi, per quella porta della felicità aperta verso il mondo, una vita da leggenda, in una terra con serpenti e tam-tam …».
È come se Eliade, non riuscendo a rendere il senso dello stupore e della esaltazione erotica di Allan per Maitreyi – ragazza di sedici anni, precocissima scrittrice, seguace del famosissimo Rabinadranath Tagore e figlia del datore di lavoro di Allan, l’ingegner Sen, bengalese laureato ad Edimburgo – dovesse ricorrere all’evocazione di una una sorta di metatesto leggendario. Così, nel momento della scena del fidanzamento clandestino, con un rito che Maitreyi reinventa a misura della situazione del tutto irregolare per i costumi della sua famiglia, il protagonista si distacca dal suo stesso sentire, peraltro espresso pateticamente – « E l’amavo, mio Dio, quanto l’amavo» – per alludere a «una di quelle scene delle ballate del medioevo indiano, con amori leggendari e dementi».

In effetti, la storia di questo amore non si discosta molto, quanto all’apparenza più superficiale della trama, dai triti modelli letterari dei drammi amorosi. Traditi involontariamente da Chabu, la sorella minore di Maitreyi, i due si perderanno: lui cacciato di casa e dal lavoro, lei fatta scudisciare dalla madre, e picchiata a sangue dal padre – che nell’occasione torna a comportarsi come, nella morale tradizionale bengalese, avrebbe dovuto fare un padre di famiglia tipico del finire degli anni Venti del Novecento. Impazzita d’amore per Allan, al quale promette eterna fedeltà, Maitreyi intende farsi ripudiare dalla famiglia e ottenere a prezzo del disonore una paradossale libertà: è perciò che si fa mettere incinta da un venditore di frutta. Ma neanche questo strattagemma le consente di fuggire dalla famiglia. Mentre Allan si dispera, Chabu, la sorella di Maitreyi che è incolpevole causa del dramma, si ammala e, quasi impazzita, muore.

Non di sola trama

Ora, se il testo si riducesse a questo intreccio e ai suoi mediocri espedienti stilistici, lo si potrebbe liquidare come una specie di romanzone dalle forti tinteggiature rosa-nero. Tuttavia, non è legittimo leggerlo appiattendolo sulla trama, né sullo sfondo, ovvero sul ritratto del colonialismo britannico e del greve razzismo del tempo in cui l’India entrava nel lungo periodo delle lotte anticoloniali, che si offrono peraltro come un controcanto all’innamoramento per l’India, propri sia della voce narrante Allan sia all’autore Eliade.

L’infatuazione di Allan per la giovanissima Maitreyi lo porta a immaginare una conversione all’induismo e l’abbandono delle compagnia degli altri occidentali della colonia, pieni di disprezzo per i «negri» e i «non cristiani», dediti all’alcool e al sesso. Il cristianesimo stesso diventa solo una forma di distinzione dal «luridume» dei locali che mangiano con le mani, non si lavano i piedi e vestono in modo ridicolo per i gusti dei colonialisti. Ma ciò che interessa non sta tanto in questo ritratto in presa diretta, quanto nella capacità di Eliade di vedere anche la melensa ridicolaggine che avrebbe contraddistinto i nuovi adoratori dell’India, quarant’anni dopo, impersonati nel romanzo da Jenia, una ragazzotta di Cape Town andata sull’Himalaya per trovare un monastero dove «cercare l’assoluto»: «la serietà di Jenia» – scrive Eliade – «mi ha improvvisamente riportato a un mondo di farse e di inezie … di ridicolo e di dramma … è venuta qui decisa a dimenticare tutto e ad entrare in un ashram, a cercare la verità, la vita, l’immortalità. L’ascolto, senza un moto del volto, ascolto tutte le superstizioni raccolte sull’India fachirica e mistica … tutta la pseudocultura che circola nelle città anglosassoni».

Eliade era arrivato in India nel 1928, a ventuno anni, e ripartì nel 1931, dopo aver cominciato a studiare il sanscrito con il più grande storico della filosofia indiana del tempo, Dasgupta, e aver conosciuto Tucci, il pioniere degli studi sulla civiltà tibetana. Ora, qui arriva la sorpresa: se si legge il saggio L’India a vent’anni, pubblicato in romeno nel 1964 e inserito poi nella raccolta Sull’erotica mistica indiana e altri scritti (Bollati Boringhieri, 1998), si scopre una decisiva coincidenza di nomi: le due figlie di Dasgupta, la cui casa Eliade frequentava regolarmente, si chiamano Maitreyi e Chabu, come le due sorelle del romanzo. E la storia d’amore è ambientata nel quartiere di Bhawanipore, dove si trova la casa dell’ingegner Sen, il padre dell’amata di Allan e suo ospite-padrone. Sono elementi che autorizzano la sovrapposizione del romanzo al racconto biografico e ai saggi.

Nello studio Sull’erotica mistica indiana del 1956 Eliade scrive che nel tantrismo e nei rituali sessuali (maithuna) «si tratta di imitare il modello divino, il Buddha o Siva, lo Spirito puro, immobile e sereno al centro del movimento cosmico»; nel romanzo, invece, l’esperienza biografica viene trasformata in un vortice di passione, sventura e morte.

Critica della tradizione

Il contesto sociale e culturale indiano tradizionale si fa sentire con tutto il suo peso oppressivo e crudele, soprattutto nei confronti delle donne, mentre gli occidentali appaiono nella veste dei colonialisti istupiditi dalle loro pretese di superiorità, oppure affascinati e poi sviati dal loro tentativo di inserirsi nella realtà dell’India profonda.

In quanto studioso, insomma, Eliade canta l’assoluto della mistica, mentre nelle vesti di romanziere svela l’ombra tremenda della realtà, e forse involontariamente si fa critico di quella stessa «tradizione» che da giovane tradusse, impropriamente, nella sua simpatia per i fascisti della guardia di ferro romeni e per il regime di Salazar in Portogallo.