Nel poemetto d’apertura della raccolta La religione del mio tempo, pubblicata nel 1961 con Garzanti, Pasolini immagina l’arredo della propria casa, una residenza ideale, piena di luce e di quadri, elegante risposta al titolo d’insieme della sezione, Il mio desiderio di ricchezza: «un appartamento al piano più assolato, / con tre, quattro stanze, e una terrazza, / abbandonata ma con rose e limoni… (…) Ah, un po’ d’ordine e un po’ di dolcezza / nel mio lavoro, nella mia vita… / Intorno metterei sedie e poltrone, / con un tavolino antico, e alcuni / (…) quadri, di crudeli manieristi, / con le cornici d’oro, contro / gli astratti sostegni delle vetrate… / Nella camera da letto (…) / appenderei la mia collezione / (…) che amo ancora: accanto / al mio Zigaina, vorrei un bel Morandi, / un Mafai, del quaranta, un De Pisis, / un piccolo Rosai, un gran Guttuso…»

I versi risalgono alla seconda metà degli anni cinquanta, in breve anticipo sul trasferimento nello stabile allegro di via Carini 45, lo stesso abitato dalla famiglia Bertolucci. Si trattava del secondo indirizzo a Monteverde, dopo quello di Via Fonteiana 86, tappa intermedia prima dell’ultimo trasloco all’Eur, al recapito signorile di via Eufrate.

Nella parabola residenziale dello scrittore, queste strofe illustrano dunque un sogno di maturità, lontano dalla miseria, severa e dignitosa, dell’indirizzo precocemente fissato in uno dei sobborghi della capitale, quello cioè di Ponte Mammolo, e precedente alla definitiva sistemazione nella zona a sud-ovest del centro, in un quartiere amato da Fellini (come insegna la puntata del programma di Anna Zanoli, Io e…, in cui il regista romagnolo racconta le ombre metafisiche di una Roma a cavallo della guerra).

Di questi appartamenti restano testimonianze fotografiche, la cui cronologia si scansiona precisa lungo l’arco breve di un quindicennio, risultando tuttavia indifesa nel documentare passo a passo i capricci dell’arredo domestico, sottoposto all’uso quotidiano, agli sgomberi e alle addizioni. Assieme all’iconofilia dei rotocalchi, rivoltisi da subito al «personaggio Pasolini», pensiamo cioè agli scatti di Aldo Durazzi, messi a fuoco nella luce di Monteverde, o a quelli seguenti di Sandro Becchetti, la cui datazione al ’71 lascia immaginare ambienti già pieni del dolore di Susanna, scoperto il brutale assassinio del figlio, nel remoto novembre di qualche autunno dopo.

PPP nel salotto della casa dell’Eur, alla parete disegno di Anna Salvatore, foto Sandro Becchetti, 1971

Più ancora che la figura d’una tragedia a venire, quelle stanze diverse offrono però, nel nitido bianco e nero d’impressioni d’antan, panorami di cose care e amate, di suppellettili e comodità. Un cesto aguzzo di pigne secche, teste di moro di sapore mediterraneo, le poltrone capaci, camini barocchi o termosifoni efficienti, le lampade immense e luminose, estranee a un’idea di design funzionale; ovunque, sui muri chiari, i dipinti appesi con ordine, poche le sculture, sparsi qua e là i soprammobili ben scelti.

Un comfort borghese, insomma, ammorbidito dagli anni e dal successo, che – in questa serie di frammenti domestici – lascia trasparire l’estro dell’amateur navigato, deciso a misurare l’idea antica di collezione sul modulo breve del proprio gusto, sicuro e forbito.

È un’occasione illuminante, dunque, per chiunque sia interessato a indagare il colloquio intenso intrattenuto dallo scrittore con le arti belle, quella che vede – per la prima volta a Roma, nelle sale intime della Galleria di via Crispi – esposti alcuni pezzi di questa privatissima raccolta. Perché sebbene non appaia sempre facile – per gli stessi curatori, pur nel ricorso alle memorie familiari – riportare ogni acquisto a una casistica comprovata di momenti o di ragioni, vi si offre l’inedita opportunità di distinguere certi amori durevoli e altrettanto espliciti attaccamenti, nell’accostare i versi della Religione (ma anche i numerosi interventi centrati sulla pittura o sulla scultura) alle immagini con le quali il poeta preferì vivere, giorno dopo giorno.

Si ritrova così, in mostra, il bouquet di Carlo Levi che in via Fonteiana stava fra le grandi finestre del salotto e, d’un tratto, lo si scopre rigato di verde, di nero, di rosa, con tinte di pennarello fiaccate delicatamente dal tempo e dal mezzogiorno; lì accanto, s’incontra il ragazzo stanco e arrendevole di Anna Salvatore (una passione degli anni cinquanta), che in via Eufrate rispondeva alla credenza d’una sobria sala da pranzo. La casa dell’Eur ospitava, in realtà, ben due opere della pittrice, a siglare una stima esercitata in pensieri e parole; meno ovvio semmai che Pasolini possedesse una coppia di creazioni dei Dioscuri De Chirico e Savinio, l’una intonata a scorci idillici dell’agro romano, l’altra a un simbolismo misterioso e notturno, preludio ai soffici incanti d’una fantasmata Sherazade.
Le donnine etrusche di Campigli poterono essere un dono, non si sa quanto gradito; e se pure il regista mancò il suo «gran Guttuso», commuove la dedica per l’amico apposta dal siciliano al disegno d’un operaio boxeur, consegnato all’alba di un decennio – quello dei sessanta – che avrebbe visto intensificarsi i loro rapporti, fino all’episodio eloquente della monografica aperta a Parma nel ’63, in occasione della quale Pasolini sarebbe sceso in campo, con durezza, per difendere i linguaggi del realismo.

C’è anche Morandi, nella pinacoteca presentata a Roma, grazie all’incisione d’un soggetto raro, il paesaggio montuoso d’Appennino chiuso attorno a Grizzana: e non potrebbe essere diversamente, se si pensa, oltre alle strofe della Ricchezza, al magistero accademico impartito da Roberto Longhi, nelle classi di storia dell’arte seguite da Pasolini al principio degli anni quaranta presso l’Università di Bologna.

Fanno difetto piuttosto, in una quadreria siffatta, l’auspicato Mafai, quello degli anni maturi delle Demolizioni, e soprattutto un sensibile De Pisis, nome attorno al quale il letterato aveva preso a meditare sin dalla tesi di laurea, il cui argomento (la moderna figurazione italiana) gli era stato suggerito per l’appunto da Longhi.

Nondimeno – lo sottolinea con sagacia Claudio Crescentini in catalogo – simili realizzazioni potevano essere evocate, nelle case vissute a fianco della madre, dalle stesse prove dipinte dal poeta in giovinezza, appese ancora alle pareti di via Carini, quegli esperimenti esili e lirici, nutriti dalla conoscenza di maestri ‘dialettali’ come il friulano Federico De Rocco ma intrise, soprattutto, della lezione del tonalismo romano.

Sono queste assonanze che strutturano l’esposizione della Galleria di via Crispi, evitando il rischio di un dittico slegato, diviso cioè tra il focus sul collezionista e quello sul pittore in proprio, dilettante di gran classe. Perché è nel meticciato dei diversi linguaggi – secondo una chiave ermeneutica riconducibile a Contini e al suo elogio dello sperimentalismo pasoliniano – che convergono le fila del percorso, riavvolgendosi cioè attorno a un aspo che ne ordina con efficacia i nodi concettuali.
In tale prospettiva colpisce allora la messa a fuoco del lavoro condotto dallo scrittore, negli anni d’adolescenza, su materiali industriali come il cellophane – che meraviglia quei ragazzi spettrali o la sequenza di Donne sedute, da scandire lungo gli anni quaranta! – proprio perché richiama per il visitatore un protagonista doloroso come il Pietro di Teorema, del film e del romanzo-sceneggiatura (entrambi datati al ’68); l’artista che, lambito dall’amore sessuato, trasfonde in indefessa ricerca formale l’anelito verso una vita nuova: cammino di salvezza, rispetto alla follia della sorella, ma una dannazione contraria all’ascesa celeste dell’umile serva interpretata da Laura Betti.