Quando Ingeborg Bachmann ascolta per la prima volta Maria Callas, durante una prova di Traviata, al Teatro alla Scala, nel 1956, viene folgorata da una intuizione acutissima: capisce che la sua voce corre su un filo sottile, dal quale rischia ogni volta di cadere. Che le sue interpretazioni sono un azzardo, una incursione nel non ancora udito. Di qui la sua grandezza. Quando E.T.A Hoffmann recensisce la Quinta di Beethoven comprende che nel «regno del titanico» nel quale sembra racchiusa la cosiddetta «sinfonia del destino» si nasconde in realtà una straziante epifania di dolore, uno «struggimento infinito in cui ogni piacere, acceso rapidamente, si inabissa e soccombe». E quando T.S. Eliot scopre le bellezze del Quartetto op. 132 (ancora Beethoven…) ne dà la lettura forse più profonda mai osata, imprimendo ai suoi Four Quartets la medesima divisione in movimenti, la stessa architettura tematica.

Esiste dunque il fondato sospetto che a volte gli scrittori riescano a far scendere la sonda della «sensibilità» musicale ben più in profondità dei cosiddetti «specialisti». Il sospetto diventa certezza non appena si solleva il lembo della complessa relazione che lega Pier Paolo Pasolini a Johann Sebastian Bach. Il centenario pasoliniano, con il suo corredo di «eventi» a volte rituali e non necessari, ha però avuto il merito di accendere l’attenzione su un testo tanto citato quanto forse poco letto (anche in ragione della sua oggettiva «tecnicità»): gli Studi sullo stile di Bach (limitatamente alle sei sonate per violino solo) scritti tra il 1944 e il 1945. Pasolini era violinista. Dilettante, forse di scarso talento, ma musicista. Lo testimonia una celebre foto che lo ritrae, adolescente, con i calzoni alla zuava, mentre stringe un piccolo violino sotto il braccio destro e tiene l’archetto con le due mani davanti a sé. Un’attitudine che rimane assopita e dormiente durante gli anni degli studi e delle peregrinazioni, ma che si riaccende quando nel 1942 Pierpaolo e la famiglia ritornano a Casarsa, nel vecchio «casolare» della madre.

Ed è un incontro casuale a risvegliare l’interesse, se non la passione, per il violino. Nel febbraio del 1943 giunge infatti a Casarsa, in un casolare distante poche centinaia di metri da quella dei Pasolini, Pina Kalc, una violinista slovena, allora trentenne, che fugge da Maribor quando la città viene occupata dai nazisti. Durante le centinaia di sere trascorse insieme fino all’estate del 1945 Pina (trasfigurata con molte «libertà» nella Dina di Anni acerbi) farà scoprire a Pier Paolo la musica di Bach e in particolare quelle che lui chiama sbrigativamente le sei Sonate per violino solo: in realtà le Sei Sonate e Partite per violino non accompagnato composte negli anni di Köthen. Pina invita più volte il suo giovane amico a suonarle insieme a lei, ma lui si ritrae («Lasci stare, Pina, prenda lei il violino e mi suoni Bach»). Le «sonate» di Bach penetrano però letteralmente nel corpo e nella mente di Pasolini che infatti proprio in questo arco di tempo, quando ha appena ventidue anni, annota sul suo quadernino i pensieri, le intuizioni, le vere e proprie analisi stilistiche delle Sonate, in particolare di due movimenti cruciali della Sonata n. 1 in sol minore: l’Adagio introduttivo e quello che lui definisce «Il Siciliano».

Proprio in questi appunti non sistematici prende forma – come si sa – la celebre endiadi che sintetizza le due dimensioni della musica di Bach: la sua concreta, urgente sensualità e la sua astratta, metafisica, religiosità: la carne e il cielo, il corpo e la preghiera. Ma ciò che rende unico il saggio di Pasolini è il metodo argomentativo: le sue intuizioni sono profondamente radicate nella tecnica, nei procedimenti di scrittura delle Sonate. Sul suo quaderno lo «scrittore» annota, su una serie di pentagrammi disegnati a mano, cellule tematiche, precorsi motivici, accordi, modulazioni, ritmi, canoni, con la precisione e lo scrupolo di un analista, di un vero musicista. In fondo – come recita un suo verso celebre – Pasolini «scrittore di musica» lo è stato davvero.