«Ho deciso di usare gli elementi più semplici che esistano – l’acqua e la terra, forse perché spero di avere un pezzo di terra che si specchi nel mare, un domani».
Dove aleggia la presenza di Pino Pascali, folletto e sciamano dell’arte volato via con la sua motocicletta a soli 33 anni come fosse l’incarnazione tragica del vitalismo giovanile – era il 1968 – può accadere che una coda di balena spunti dal muro del salotto d’improvviso, creste di dinosauro germoglino dal pavimento in una sala vicina al Colosseo e variopinti «bachi da setola» convivano con vicini di casa titanici, come ragni blu extralarge, o inservibili cannoni assemblati con materiali di scarto.
In quell’universo del possibile, attraverso monumentali dettagli disseminati qua e là con un filo conduttore imbastito nel bricolage, s’invera l’esorcismo fiabesco delle paure più profonde. Ma anche la ricerca di un legame antico fra gli abitanti del pianeta, la riconnessione di sé con gli umori della terra, il ritorno a un pensiero magico popolato di animali preistorici che ancora oggi nutrono il nostro immaginario, spingendoci alla meraviglia.

LO SAPEVA DÜRER quando incideva il suo rinoceronte d’invenzione e corazzato come un soldato delle leggende medievali eppure così vicino alla realtà da divenire il simbolo dell’ignoto da esplorare; lo sapeva Pascali quando con una postura filosofica sceglieva lo stupore come chiave di accesso al mondo. Un approdo inaspettato alla libertà il suo, che gli consentiva anche di affettare il mare e riporlo geometricamente in una serie di vasche, per la precisione in 32 metri quadrati (alla Biennale giovani di Parigi del 1967, un cartello recitava: «è vietato immergervi i piedi») o di aprire pozzanghere immaginarie su strade mai percorse prima.

LO SPAZIO ALLESTITO dall’artista di Polignano a mare, in ogni sua migrazione museale, rispecchia l’«eterotopia» di Foucault, con la differenza che tra le apparizioni ancestrali, le giungle di liane dislocate in gallerie, gli aratri nostalgici dei loro campi, gli zoo fantastici e i bestiari che tante volte doveva aver visto nelle chiese romaniche della sua Puglia, Pascali quei «luoghi altri» li condensa e riconsegna per ellissi e frammenti.
«L’opera (immensa) di Bachelard e le descrizioni dei fenomenologi ci hanno insegnato che non viviamo in uno spazio omogeneo e vuoto – scriveva Foucault –, ma al contrario, in uno spazio carico di qualità, che è anche, probabilmente, abitato da fantasmi; lo spazio della nostra percezione primaria, quella dei nostri sogni, delle nostre passioni…».

Dalla mostra di Fondazione Prada a Milano (Cavalletto, galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea) e la foto di Ugo Mulas

LA RETROSPETTIVA che si è appena aperta alla Fondazione Prada di Milano, a cura di Mark Godfrey (visitabile fino al 23 settembre) può essere impaginata seguendo due suggestioni: gli spazi onirici e ludici dell’eterotopia, appunto, e la potenza deflagrante dei materiali, quelli naturali, «poveri», ma anche quelli di nuova generazione, più tecnologici, che negli anni Sessanta cominciavano a popolare la dimensione quotidiana di ognuno.
Tutto, sempre, rigorosamente fuori misura come se le sculture fossero dettagli ingigantiti di visioni che rovesciano l’oggettività della cronaca trasformandosi in icone, corpi artificiali, utensili-totem che invitano alla trasgressione nel loro uso improprio. Cose famigliari eppure straniate e, soprattutto, stranianti. Proprio come i personaggi che disegnava per le pubblicità della Rai.
Nella prima sezione – il Podium – sono ricostruite le mostre dal 1965 al 1968 presso gallerie come La Tartaruga o l’Attico, in modo abbastanza filologico (dove si è potuto farlo seguendo documenti e opere). Una serie di scatole architettoniche «fatate», mondi paralleli e capsule del tempo accolgono il pubblico mentre nelle altri parti della rassegna si indagano i documenti fotografici, meravigliosi da vedersi tutti insieme (l’interazione così importante con Claudio Abate, Andrea Taverna e Ugo Mulas), la sua presenza in collettive e, infine, l’utilizzo spregiudicato di materiali industriali, sezione questa accompagnata da video-interviste un po’ didattiche che ne raccontano l’avventura in ambito commerciale e creativo.

CERTAMENTE, lo spirito di Pascali, il suo ghost irriverente, si aggira molto più al piano del Podium, fra colli di giraffe, musi di cetacei, profili di labbra pop. Lui non ha mai smesso di rapportarsi alla realtà seguendo i flussi del pensiero magico, difficile spiegare la sua arte. «Mi piacciono gli animali – diceva – ma non significa che voglio rifarli. Sono un soggetto, un’immagine, un contorno già pronto». Anche loro, quindi,  sono ghosts.

Particolare da Botole (Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea)

FABIO SARGENTINI – che ha fatto uscire molte preziose testimonianze dal suo archivio per la mostra alla Fondazione Prada – ricorda il suo primo incontro con Pino Pascali. All’inizio, si imbatte nei suoi cannoni esposti da Sperone, a Torino, erimane sconcertato. Ma, incuriosito, vuole vedere l’artista a Roma. «Quando ci incontriamo non ci sono armi nello studio, bensì un mare di onde bianche di tela tesa su centine di legno. Al centro del mare, al posto di un’onda, c’è lui, Pascali. Mi accorgo che è un performer nato».