In Venezuela, le destre scoprono le carte, esplicitando le tappe della loro principale ossessione: farla finita col presidente Nicolas Maduro. Ieri, i rappresentanti del cartello Mud hanno illustrato ai giornalisti le tre opzioni previste per raggiungere l’obiettivo: la piazza, la modifica della costituzione per ridurre il periodo di mandato del presidente e quello del Tribunal Supremo de Justicia, e un referendum revocatorio. La costituzione prevede che qualunque carica può essere revocata previo referendum a metà mandato. Una modifica alla costituzione, invece, può essere proposta dalla maggioranza del parlamento che, dal 6 dicembre è – per la prima volta in 17 anni -, a favore delle destre. Anche in questo caso, comunque, potrebbe esserci l’opposizione del Tsj e dev’essere la volontà popolare a decidere. Per questo, dalla prossima settimana la Mud ha annunciato l’istituzione di «comandi di campagna»: per promuovere «il cambio».

In cosa consista il «cambio» – mantra della campagna elettorale Mud – , in termini di soluzioni economiche e maggior benessere del paese, non è dato sapere: perché la composita e litigiosa coalizione ha finora tirato fuori solo la proposta di privatizzare tutto il possibile, vendere le case popolari e spalancare le porte al rientro del Fondo monetario internazionale. Il modello inaugurato da Macri in Argentina.

La promessa elettorale di «farla finita con le code in quindici giorni» è rientrata subito: perché speculare con il dollaro parallelo diretto da Miami dopo aver intascato divise a cambio agevolato è infinitamente più redditizio che investire nell’autonomia produttiva del paese. Soprattutto se poi si è obbligati a rispettare le leggi del lavoro e non si può adottare il modello messicano delle maquilas o quello honduregno delle zone economiche senza controllo. E così, la Mud ha finora respinto ogni proposta economica e ogni appello al dialogo, puntando sul suo cavallo di battaglia: la cacciata di Maduro. Senza peraltro alcuna idea di chi potrebbe proporre come candidato alle eventuali nuove elezioni. Tanto che, persino a Washington c’è chi ha consigliato loro di lasciar terminare il mandato al presidente «per garantire la stabilità del paese».

Ma ora, per mettere d’accordo tutti – l’ala oltranzista che spinge per riproporre le violenze di piazza del 2014 che avevano provocato 43 morti e oltre 800 feriti – e quella moderata che vorrebbe prepararsi meglio al «cambio» organizzando il referendum revocatorio a metà mandato, la Mud la tirato fuori le sue tre carte. E la principale è quella della modifica costituzionale. Un percorso scivoloso, che prefigura i contorni di un «golpe istituzionale» simile a quello che ha defenestrato Fernando Lugo in Paraguay.

Ma i grandi centri di potere premono per rimettere la mano sulle risorse di un paese che custodisce le prime riserve di petrolio al mondo e le seconde di oro, e per farla finita al più presto con il «laboratorio bolivariano» che sta ispirando anche la polveriera centroamericana. Intanto, Obama ha rinnovato per un altro anno le sanzioni al Venezuela, definito – senza paura del ridicolo – «una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati uniti». Intanto, dopo la firma dell’Accordo Transpacifico (Tpp) e l’avanzata di quello che, in segreto, sta arrivando per l’Europa (Ttip), si spera di costruire una situazione di non-ritorno neoliberista. La via del golpe istituzionale o giudiziario alletta le destre in tutto il Latinoamerica. E si conta che il petrolio rimanga ancora in bassa: tanto l’Arabia Saudita mica deve rispondere ai settori popolari se li costringe a tirare la cinghia ancora un po’, e alle petromonarchie il denaro non manca.

Maduro, invece, pur avendo annunciato correttivi in economia e nella politica cambiaria, ha scelto di aumentare nuovamente salari e pensioni: per compensare l’alta inflazione e i prezzi dei prodotti non calmierati che le imprese private fanno impennare, incuranti delle leggi, prendendo a riferimento il cambio al nero del sito Dollar Today. Dal senato cileno a quello brasiliano, le destre plaudono, mentre i famigliari di una vittima cilena delle violenze di piazza del 2014 hanno diffuso una commovente lettera di protesta.