Prima si crea la povertà, poi la si governa. Avendo cura di erogare un «reddito di inclusione» (Rei) a una minoranza di poverissimi (circa 500 mila nuclei familiari con figli numerosi), distinguendoli dalla maggioranza (1 milione 619 mila) e ignorando il mondo ancora più grande dei «lavoratori poveri», i cosiddetti «working poors» che si trovano in una condizione di «povertà relativa»: 8 milioni 465mila persone, 2 milioni 734 mila famiglie.

Al decimo anno di crisi, e in ritardo di almeno 25 anni rispetto alle direttive dell’Unione Europea, ieri primo dicembre sono stati aperti i termini per presentare la domanda per la prima misura nazionale di contrasto alla povertà di natura selettiva e condizionata all’accettazione di un’offerta di un lavoro. Dal primo gennaio 2018 chi non lo farà, perderà il diritto di beneficiare di massimo 485,41 euro al mese (per una famiglia di 5 o più individui); 382 euro (per quattro); 294 (tre); 294 (due); 187 (uno). I beneficiari dovranno rispettare, tra gli altri, i seguenti requisiti: un valore Isee non superiore a 6 mila euro, non avere percepito il sussidio NASpi, non avere acquistato una moto o un auto negli ultimi 24 mesi, non avere un patrimonio immobiliare diverso dall’abitazione con un valore superiore ai 20 mila euro. E il possesso di una barca da diporto. Condizione grottesca per un «povero assoluto». A meno che il legislatore non abbia pensato a un evasore fiscale travestito da povero. Ma ci si chiede perché un evasore di tal fatta possa chiedere un sussidio di povertà.

Non va nemmeno dimenticato che il «Rei» dura massimo un anno. Si ritiene che, in queste condizioni, e in virtù dell’erogazione di questo «reddito» la povertà sarà scomparsa in dodici mesi. Con ogni probabilità, invece, sarà un nuovo strumento per produrre nuovo lavoro povero usato per «attivare» e rendere «occupabili» le persone fuori dal mercato del lavoro, com’è già accaduto per gli «inattivi», i «neet», i «disoccupati», i rimborsi spese per i «volontari» nel settore dei beni culturali oppure con il servizio civile. Mentre la «Garanzia giovani», i «tirocini», gli «stage» si rivolgono ai giovani, il «Rei» è una «politica attiva» del lavoro che coinvolge gli esclusi e gli emarginati. Per fare cosa? Probabilmente attività di «pubblica utilità» senza reale reinserimento lavorativo. Numeri utili per dimostrare che l’«occupazione» aumenta in Italia.

Nelle politiche sociali italiane il «Rei» è stato presentato come «universale» ma, in tutta evidenza, è un sussidio di ultima istanza sotto-finanziato. Il cartello di associazioni cattoliche e sindacati «Alleanza contro la povertà» ritiene che una misura diretta a tutti i poveri costerebbe 7 miliardi di euro all’anno. I fondi stanziati dal governo Gentiloni sono molto inferiori. La razionalizzazione dei precedenti strumenti di contrasto contro la povertà (il «Sia», l’Asdi, la «social card»), ha permesso di raccogliere risorse pari a 1.845 miliardi di euro a decorrere dal 2019.

La novità è che questi soldi sono «strutturali» e anche il prossimo governo dovrà rifinanziarli. Questo va riconosciuto a un progetto che ha avuto una gestazione faticosissima ed è stato adottato dopo avere bruciato 9 miliardi di euro per il bonus degli 80 euro; 18 miliardi di euro per gli sgravi contributivi per i neo-assunti con il Jobs Act. Senza contare gli altri bonus che hanno funestato le politiche economiche della legislatura che sta per chiudersi. La somma di questi soldi, ottenuti grazie alla «flessibilità» concessa dalla Commissione Ue, avrebbe potuto finanziare una misura ben più strutturale, all’altezza di una drammatica crisi sociale destinata a durare.

Una prima alternativa è quella del reddito minimo garantito, rivolto a tutti individui poveri e precari e non alle famiglie, universale e incondizionato: non soggetto al vincolo di un lavoro, ma commisurato alla dignità della persona e allo sviluppo delle sue possibilità lavorative. Costerebbe tra i 14 e i 21 miliardi di euro per un contributo pari alla soglia media della povertà: 702 euro mensili. Invece il «Rei» è ben al di sotto della soglia di povertà assoluta e copre il 20% del fabbisogno.

In più questo strumento rischia di condizionare la vita dei poveri a cui è rivolto. Come altre misure introdotte in Europa negli anni della crisi, anche questa risponde alla legge del «workfare»: sussidio di povertà in cambio di lavoro coatto.