Massimalista, brutale e «inintellegibile», il trumpismo elude categorie e analisi politiche tradizionali. Ne La lingua di Trump (Einaudi, pp. 104, euro 14) Bérengère Viennot tenta un’esegesi a partire specificamente dal linguaggio, applicando un rigore da traduttrice, un mestiere che impone meticolosità e un amore per quel linguaggio che Trump violenta quotidianamente.

LA NORMA VUOLE che il discorso politico sia comprensibile e persuasivo – entrambi concetti ignorati di proposito da The Donald per cui il linguaggio è strumento di un’eversione epistemologica. atta a sovvertire la realtà dei fatti, piegarla ai propri fini, come scrive Viennot con l’esasperazione acquisita di chi per lavoro deve seguire i discorsi di Trump: «Benvenuti in un mondo in cui basta dire una cosa per farla diventare vera. Al 100 per cento». È la costante mistificazione dialettica dei populismi: declassare i fatti a rango di opinioni, passibili quindi, fossero pure dati scientifici, di par condicio da parte di seguaci e complottisti.

Demagogia e crudeltà del trumpismo sono inscindibili. «È innanzitutto una violenza verbale. Il vocabolario che Trump sceglie di impiegare è di rara brutalità», rileva Viennot. Trump, sotto legittimo sospetto di dislessia, non è mai interamente a proprio agio nei contesti istituzionali – i discorsi all’Onu o le conferenze stampa. Assurge invece a sua massima gloria «dialettica» nei comizi in cui si concede al visibilio dei cappelletti rossi. Sono delle specie di sabba in cui il presidente parla a braccio, spesso in non sequitur ed in esclamazioni semi-inintellegibili «sgrammaticate e disordinate», come scrive Viennot. Più che discorsi si è di fronte ad excursus in libertà, elocuzioni condite di insulti, accuse e falsità – e sommamente efficaci nel contesto.

«Anche quando non si è molto bravi in inglese, si ha l’impressione di capire tutto», scrive Viennot con cognizione di causa. La retorica di Trump è frammentata, semplificata e quasi gutturale (diametralmente l’opposto alle elocuzioni professoriali del disprezzato predecessore).

L’OPERAZIONE di «dumbing down», di riduzione del linguaggio ai minimi termini viene ovviamente rivendicata con orgoglio dal miliardario autonominato condottiero populista. «We love our poorly educated», aveva esclamato in uno dei primi comizi elettorali a Fresno. E «vogliamo bene ai nostri scarsamente istruiti» rimane uno degli slogan più emblematici ed entusiasticamente recepiti dalla sua base di fedelissimi.

È UNA FILOSOFIA DIALETTICA che obbliga giornalisti, esegeti e, nel caso di questo originale volume, traduttori ufficiali ad inoltrarsi su inediti terreni linguistici. Significativo l’esempio addotto da Viennot sulle diverse scelte per rendere il famigerato termine «shithole countries» scagliato nel 2018 dall’uomo politico più potente del mondo contro nazioni povere, esportatrici di profughi ed emigrati di colore. «Libération ha scelto il termine “topaia”, per esempio». Il che sembra un po’ debole rispetto a «paesi di merda» (LeMonde), «paesi di cessi» (i media greci, secondo l’Afp) e «paises de mierda» della stampa spagnola (su questo giornale abbiamo optato per «paesi latrina»).

Tradurre la voce di Trump significa dunque interpretare una sintassi della prepotenza (quella che, scrive Viennot, «alterna semplicità estrema e assurdità totale») e del sopruso. Viennot le definisce «sberle» e Trump ha imparato a tirarle negli anni passati da palazzinaro e conduttore di reality tv, ma soprattutto dal tutore fascista e maccartista Roy Cohn.

PER ANALIZZARE affinità lessicali del post nazismo trumpista con l’originale, Viennot ricorre al lavoro del filosofo ebreo Tedesco Victor Klemperer che in LTI. La lingua del Terzo Reich (Giuntina) rileva le identiche strategie di semplificazione, falsificazione e sloganificazione nella retorica dei gerarchi tedeschi dell’epoca. E aleggia infine su questo piccolo trattato, lo sconcerto per l’efficacia della strategia che ha in gran parte neutralizzato sia opposizione politica che giornalismo. Prigionieri entrambi del dilemma se reagire agli attacchi e rischiare di rimanere invischiati nel fango in cui il presidente è più a suo agio, o tentare di «rimanere al di sopra» e passare per pavidi.

Non è un caso che il giornalismo, tradizionale baluardo anglosassone contro l’abuso di potere, sia stato designato subito nemico numero uno dal trumpismo, delegittimato da un attacco frontale e dalla propaganda su canali amici. La cacofonia così volutamente creata (vedasi le conferenze stampa sostituite da strillonaggio davanti al rumore assordante dei motori accessi dell’elicottero presidenziale) mira a confutare ogni fatto comprovabile fino a risucchiare l’ossigeno necessario sia al dibattito ragionato che all’indagine giornalistica.

È il «regno del terrore dialettico» su cii Trump sta in gran parte puntando per prolungare il proprio mandato.