Ogni narrazione autobiografica può essere assimilata a una scrittura [/V_INIZIO]post-mortem. Per raccontare di sé, per fare della propria vita un tessuto linguistico riducendone gli avvenimenti caotici a intrecci e nodi di una trama ben ordinata, bisogna prima averle sottratto la tridimensionalità dei corpi, il peso degli oggetti, il respiro sequenziale dei giorni. Ogni scrittore che racconti di sé, che abbia il potere di far coincidere il soggetto pronominale io con un qualcosa di universalmente e comunemente identificato come «la propria identità», è in un certo senso un sopravvissuto: a se stesso, al mondo che lo circonda. Perché la parola avanzi, il corpo che la porta in sé deve in qualche modo arretrare.

Storia di una donna libera, autobiografia di Françoise Giroud, uscita postuma nel 2013 per Gallimard e presentata oggi in Italia da Neri Pozza (traduzione di Roberto Boi, prefazione di Alix de Saint-André, pp. 216, euro 18,00) è a tutti gli effetti la storia di una sopravvivenza. Scritta dopo un tentativo di suicidio da barbiturici (anzi due tentativi, se consideriamo anche il goffo esperimento di tagliarsi le vene in ospedale) rappresenta realmente il risveglio da un coma. Nella accezione prima del suo significato, il coma è un torpore profondo. Comporta il sonno della coscienza, l’estraneità di un corpo a se stesso, l’indifferenza radicale di un io che sembrerebbe impigliato sul fondo viscido del sogno e non più in grado di riaffiorare alla superficie del mondo che lo ha generato.

Salvata per miracolo – e contro la sua volontà – dimessa dalla clinica dopo una cura forzata di antidepressivi e un primo avvicinamento alla terapia psicoanalitica, Françoise Giroud, in quell’estate del 1960, sembra scrivere soprattutto per svegliarsi. Chiusa per tre mesi nella casa in Provenza di Hélène Lazareff (direttrice di «Elle» e sua migliore amica), ha bisogno di mettere nero su bianco la propria vita come quei pazienti che all’alba, ancora a letto, annotano i loro sogni su un quaderno per non dimenticarli. Il suo passato, tutto intero, ha conosciuto la notte artificiale del coma da sonniferi, il buio del suicidio, e adesso deve riproposrsi come un fantasma senza corpo, una pura alterità narrativa perché ogni cosa possa finalmente trovare un nuovo ordine.

Françoise Giroud è stata, da sempre, una donna votata alla scrittura. Personaggio di spicco della cultura e della politica francese, sottosegretario della Condizione femminile nel 1974 durante la presidenza Giscard d’Estaing, e ministro della cultura nel 1976 per il gabinetto di Raymond Barre, è soprattutto nota come co-fondatrice (insieme a Jean-Jacques Servan-Schreiber, il grande amore della sua vita) di «L’Express», il primo settimanale francese di attualità e politica, nato nel 1953 durante la guerra di Indocina e nel giro di pochissimi mesi diventato il principale punto di riferimento per tutta la sinistra francese non comunista. Che Françoise Giroud sia stata una presenza tra le più autorevoli della carta stampata d’oltralpe, fin dai suoi esordi su «Elle» negli anni ’40, non significa tuttavia che la sua vita sia passata in costante rapporto simbiotico con la scrittura.

Assemblato con tutta probabilità per non essere mai pubblicato, nascosto dentro venticinque scatoloni di materiale privato (lettere, taccuini del padre, ciocche di capelli della madre, fotografie) che nel 2001 lei stessa avrebbe affidato all’Imec perché venissero sepolti negli archivi di un’abbazia medioevale nei dintorni di Caen, Storia di una donna libera è di fatto un’opera unica nella produzione di Françoise Giroud. Più che un valore testimoniale su fatti politici e figure che appartengono alla storia della cultura francese (nel libro, ogni personaggio viene sempre chiamato con il proprio nome – da François Mauriac, a André Gide, a Marc Allégret – senza mai nessun filtro o concessione romanzesca) questo testo autobiografico sembra essere in tutto e per tutto una grande opera di autogiustificazione, o meglio, un tentativo di «fare ordine», di dare una spiegazione razionale – ritrovando nel proprio passato di bambina il materiale con cui si andrà costruendo la propria armatura di donna adulta – a un evento che di fatto non risponde a alcun ordine: il trauma dell’abbandono, la sconfitta lacerante di un amore perduto.

Il 1960, l’anno del tentato suicidio, rappresenta una doppia perdita per Françoise Giroud. Jean-Jacques Servan-Schreiber la lascia per sposare una donna più giovane dalla quale avrà quattro figli e Françoise abbandona la direzione dell’ «Express» perché non più in grado di condividere la propria quotidianità professionale con l’uomo che ancora ama e che adesso ha infranto il loro «patto androgino», un patto di completa fusionalità. Spossessata della propria vita nel momento della sua massima espansione (all’epoca Françoise Giroud ha quarantaquattro anni ed è una donna più che affermata), amputata dei due rami più saldi e fecondi della propria esistenza, non le resta – a suo parere – che il suicidio, visto come espressione estrema di libertà, come affermazione ultima e radicale di un io forte, non asservito all’umanissima legge del dolore.

«Della mia libertà – scrive – conoscevo il limite. L’ho toccato il giorno in cui ho deciso di spezzare la mia vita per uscire dalla prigione dentro la quale io stessa mi ero rinchiusa, perché non riuscivo a trovare un altro modo per venirne fuori. Stranamente, a dispetto della buona organizzazione, ho fallito. Scegliere la propria morte, l’ora e la forma della propria morte, è un’espressione purissima di libertà. Forse la più pura in assoluto. E mi è stata impedita». Costretta suo malgrado a vivere, a sopportare la vista del suo tronco spoglio e delle sue radici nude si rivolgerà quindi alla scrittura come forma di cura, come lavoro di messa in intreccio, di problematizzazione e, conseguentemente, di auroriflessione su una vita fatta di scelte spesso contradittorie.

Che poi le cose siano realmente andate come lei ce le racconta non importa molto. Negli ultimi mesi della loro relazione, quando ormai era chiara la presenza di un’altra donna nella vita di Jean-Jacques Servan-Schreiber, lui accuserà Françoise di aver scritto lettere anonime antisemite e di una violenza inaudita indirizzate a lui e alla sua futura moglie. Nel testo Françoise costruisce un impianto di difesa a questa accusa, un impianto così forte, talmente ancorato a una tela di rimandi, echi e corrispondenze tra passato e presente, tra ingiustizie subite da bambina e fragilità di donna adulta, che finisce con il destare qualche sospetto. Ma appunto, non è il valore documentario del testo che qui è importante.

Il valore di Storia di una donna libera non sta infatti nella sua verità fattuale, quanto nella sua verità narrativa, nella forza elegante delle sue figure emerse dal sogno – la madre, il padre, lo stesso Jean-Jacques Servan-Schreiber – immagini sopravvissute al buio linguistico del coma e forse per questo adesso lucenti di una profondità che solo i fantasmi sono in grado di conoscere.