Renato Mambor, da bambino, era il cruccio dei suoi genitori. Eccentrico e curioso delle cose del mondo, sfuggiva a ogni regola e non si sapeva bene cosa fargli fare «da grande». Ma la strada, un giorno, se la trovò da solo: adolescente frequentava l’istituto tecnico ma poi scappava nel portone di fronte, a disegnare cartelloni pubblicitari, a impiastricciare il mondo con i colori, le idee, le sue «sagome». Le prime che finirono per popolare quel nuovo mondo artistico, denso di promesse e cosparse di una iniziale spensieratezza, furono quelle degli «uomini statistici».

Mambor li aveva visti in tipografia, pronti per essere stampigliati sulle porte dei bagni, come pura segnaletica grafica. Per lui, invece, divennero personaggi di un paesaggio interiore, che ricalcava i passi anonimi della società di massa. Figure un po’ smarrite che presto avrebbero conquistato gli spazi urbani, rurali, immaginari. Arte degli interstizi la sua, aperta alle voci degli altri -(amici pittori come quelli di piazza del Popolo, o compagnie teatrali quando la drammaturgia prese il posto delle tele), che questo protagonista del secondo Novecento racconta con toni intimi, striati di ironia, nel documentario Mambor di Gianna Mazzini.

Il film biografico –   che verrà proiettato oggi, alle ore 18, presso la Casa del Cinema di Roma con Fabrizio Gifuni, poi il 18 a Firenze con Stefano Dal Bianco, il 1 luglio a Milano con Emanuele Trevi e il 10 luglio a Palermo con Andrea Satta all’interno del progetto distributivo creativo ideato e curato da Silvia Jop con la partecipazione della moglie Patrizia Speciale: Parola chiave Mambor – si snoda lungo le varie tappe di una vita irregolare, che comincia sulla strada fra le pompe di benzina, mestiere paterno, si sposta sui set felliniani (lui, «er mejo tacco del Quadraro», venne cooptato per la Dolce vita dal regista proprio mentre faceva benzina), si dispiega in foto e azioni costruite su «impedimenti fisici», si chiude in studio, si riapre sul palcoscenico, si allarga filosoficamente in direzione dell’universo.

Si confessa Renato, con la sua voce flebile (è la sua ultima intervista), ricorda il desiderio tutto politico di collaborare con gli altri, la ferocia delle amicizie in cui si discuteva di tutto, la fine della leggerezza, intessuta di trame sentimentali private. La sua è una sinfonia esistenziale, in cui il principio buddista di «assorbire il tempo» si fa cifra stilistica di un linguaggio originalissimo. Che, come dice lui stesso, «fa e disfa le relazioni del mondo».