Com’è la Giuditta e Oloferne in vendita presso l’antiquario Eric Turquin esposta a Brera? Era meglio in foto. Come tanti quadri caravaggeschi è fotogenica, se poi ci metti la «postproduzione» digitale sugli scatti… Comunque è bruciata! Bruciata? Sì, bruciata, fatta fuori, autodistrutta.
Allora, molto rumore per nulla? No per nulla no, non fosse altro che per i problemi di etica dei musei che l’esposizione pone. Tipo? Tipo: si possono esporre quadri in vendita nei musei pubblici italiani? Dopo le dimissioni di uno dei membri del comitato scientifico del museo (in disaccordo con la perentoria presentazione del dipinto sotto il nome del Caravaggio, imposta dal mercante-proprietario) viene spontaneo chiedersi a che servano questi comitati affiancati alle nuove figure di Direttore generale. Come sempre si fanno le riforme ma non si riformano del tutto le istituzioni e da alcune parti funziona da altre no (basta sfogliare il catalogo della mostra su Dürer a Mantova, per avere almeno un esempio in negativo recente).
La Giuditta rientra in un programma di riallestimento della Pinacoteca di Brera del tutto meritorio e che ha dato esiti finora soddisfacenti. Si è partiti dalla zona centrale del museo, dove negli anni si erano accumulati dipinti vari, non del tutto coerenti con il percorso, riesumati dai depositi per andare incontro alle mode del mostrificio del momento (Palmezzano) e alle passioni dei funzionari che si prestavano al gioco. Si è proceduto riorganizzando con coerenza la narrazione (come si dice oggi) cronologica, con un tentativo di didascalizzazione più ricco, secondo una logica da museo americano. Questa prima fase è culminata in una mostra, chiamata «dialogo», che aveva il pregio di inverare un confronto da manuale: lo Sposalizio della Vergine di Perugino da Caen a confronto con il Raffaello giovanile di Brera dallo stesso soggetto. Non che in questa risistemazione mancassero i problemi: il più vistoso è dato dall’attribuzione a Girolamo Mazzola Bedoli di uno strepitoso San Tommaso (altrettanto strepitosamente restaurato), che ha tutte le credenziali per essere del Parmigianino.
La seconda fase del riallestimento aveva interessato la parte dei primitivi e dei veneti del Quattrocento, gravata dalla recente e discutibile sistemazione – da parte di Ermanno Olmi – del Cristo morto di Mantegna. Anche qui l’operazione culminava in un «dialogo»: il dipinto di Mantegna era giustapposto a due soggetti simili, uno di Annibale Carracci (proveniente da Stoccarda) e uno di Orazio Borgianni (proveniente dalla Galleria Spada di Roma). Quest’ultimo pezzo, di cui esistono più versioni ritenute autografe, non faceva un grande effetto. Meglio rispetto a prima, in queste due risistemazioni – ma anche in quella appena inaugurata –, i colori, che non vengono più dal campionario della Chicco.
Il terzo riallestimento ha visto il coinvolgimento dell’ex-soprintendente di Napoli Nicola Spinosa, che ha portato in dote pure la Giuditta. Nelle sale del Seicento hanno trovato più coerenza i napoletani; la Cena in Emmaus del Caravaggio si vede finalmente di fronte, da lontano e con maggiore agio (il discepolo che si alza dalla sedia come mi ricorda l’apostolo che nell’Ultima cena di Antonio Campi a Fontanella compie lo stesso gesto). Ma il Seicento lombardo, che dovrebbe costituire il fiore all’occhiello, ancora langue. Perché tenere esposta la Cena di Daniele Crespi, quando c’è – in deposito – un capolavoro come l’Andata al Calvario dello stesso pittore? I quadri piccoli non funzionano vicino a questo zatterone, già da accademismo devozionale alla Federico Borromeo; e poi perché fare la sezione con le nature morte e i ritratti dove sono confinati i due strepitosi Tanzio da Varallo?
La grande pala di Gentileschi, già a Como, che ha preso il posto della Cena del Caravaggio senza sfigurare, impressiona per la data: entro il 1607 abbiamo la prima immissione al Nord di caravaggismo, quello, pubblico, di primissimo Seicento, ma qui addomesticato da ricordi manieristi. In questo caso il terzo «dialogo» si poteva risparmiare, c’era già tanta carne al fuoco: il Caravaggio, peraltro donato dagli Amici di Brera, che festeggiano il loro novantesimo compleanno (come il loro presidente Aldo Bassetti), spostato in una posizione più dignitosa poteva bastare e si risparmiavano così la Giuditta Intesa Sanpaolo, i Finson provenienti dalla Francia – che non fanno altro che confermare quanta confusione ci sia sul pittore fiammingo – ma anche la mediocrissima Maddalena già di Paolo Volponi.
Questa composizione della Giuditta ora esposta con l’attribuzione al Caravaggio a Brera – che è stata messa in relazione nel 1984 da Pier Luigi Leone De Castris, a partire dalla versione Intesa Sanpaolo, con un perduto originale del Merisi che Finson e l’amico Vinck possedevano a Napoli nel 1607 – ha catalizzato in negativo l’attenzione sulla mostra e il riallestimento delle sale seicentesche di Brera, dando vita a manifestazioni che attestano la crisi della disciplina con la falsa ipocrisia del coinvolgimento del pubblico. Siamo nel mondo della paraverità: si butta la proposta perentoriamente nell’arena, a nessuno è più riconosciuta l’autorevolezza per smentire e, al giro successivo, della boutade ci si dimentica. Ma il quadro ormai non beneficia più «dell’importante è che se ne parli», del «si crea attenzione», del «tutti lo vogliono»; siamo già oltre: si brucia, anche se la luce che illumina la Giuditta è «fredda».