I due romanzi ai quali è affidata la fama italiana di Ben Lerner, e che hanno indotto diversi critici e recensori a considerarlo una delle poche voci in grado di rilanciare un’idea avanguardistica e innovativa di letteratura, si proponevano come libri senza trama, nei quali l’intreccio si costruiva tramite un cumulo di frammenti, episodi, vicende apparentemente irrilevanti e sconnesse, che la coscienza centrale dell’io narrante si sforzava di ordinare e organizzare in una sequenza interiore, trasformandone e manipolandone di continuo il senso.
Nel romanzo di esordio, Un uomo di passaggio (Neri Pozza), questo io narrante aveva un nome: Adam Gordon, poeta e traduttore che si era costruito una notevole reputazione ma che viveva perennemente sospeso tra la coscienza oscillante del proprio talento e la sensazione di essere solamente un impostore e un plagiario.

Nella seconda e più matura opera di Lerner, Nel mondo a venire, il protagonista rimaneva invece senza nome: anche lui poeta, e critico d’arte, aveva una cattedra universitaria a Brooklyn, dove viveva, e aveva pubblicato da poco, per un piccolo editore, un romanzo accolto con grande favore e circondato da un culto tenace. In entrambi i libri, le peregrinazioni dei protagonisti si stagliavano sullo sfondo di un paesaggio apocalittico: una Madrid sconvolta dall’attentato alla stazione di Atocha, in Un uomo di passaggio, e una New York fotografata nell’intervallo tra due uragani che creavano una strana atmosfera ovattata, carica di inquietudine e di presagi, in Nel mondo a venire.

In entrambi i libri, infine, la flânerie dei due protagonisti, il loro vagare fisico e mentale in un mondo perennemente insidiato dall’irruzione del caos o della violenza più destabilizzante, l’elogio di un’arte che sappia accogliere in sé l’indeterminato, ciò che è ancora di là da venire, facendone oggetto di discorso, sfociavano in un modello di narrazione sospesa tra poesia meditativa, auto fiction, racconto, saggio filosofico, che aveva i suoi precedenti più ovvi – e subito notati dalla critica – in autori europei come W. G. Sebald e Emmanuel Carrère, o in grandi innovatori del romanzo americano come Richard Powers.
Ora, e sempre grazie a Sellerio, l’editore che aveva già pubblicato Nel mondo a venire, Lerner torna in libreria con un saggio breve di grande fascino, nel quale, la meditazione personale, l’autobiografismo, gli squarci narrativi si alternano a veri e propri esercizi di critica letteraria e analisi del testo. Tradotto impeccabilmente da Martina Testa, Odiare la poesia (pp. 88, euro 10,00) si apre, per l’appunto, con un aneddoto personale: costretto, al primo anno delle superiori, a imparare a memoria una poesia per recitarla in classe, Lerner chiede alla bibliotecaria del suo liceo di indicargli quella più breve che conosca. «E lei mi consigliò “La poesia” di Marianne Moore, il cui testo completo, nella versione del 1967, si presenta così: “Neanche a me piace./ A leggerla, però, con totale disprezzo, vi si scopre, / dopo tutto, uno spazio per l’autentico”».

Lerner pensa a quanto siano sciocchi i suoi compagni di classe, che hanno quasi tutti optato per un sonetto di Shakespeare, «mentre io dovevo recitare solo ventiquattro parole. Peccato che la presenza di uno schema metrico preciso e del pentametro giambico renda più facile memorizzare quattordici versi di Shakespeare che tre di Marianne Moore, ciascuno dei quali è interrotto da un avverbio: un parallelismo di inceppi che in pratica dà forma alla poesia».
Se, per effetto di tale «parallelismo di inceppi», Lerner non imparerà mai la poesia – e confessa di far fatica ancora oggi a recitarla per intero e senza sbagliare –, il verso di apertura, quel «Neanche a me piace», si è però fissato nella sua mente come un mantra, fino a divenire, a distanza di decenni, l’architrave delle sue riflessioni sullo scrivere in versi e su ciò che esso significa. «”La poesia”: che forma d’arte è quella che dà per scontato di non piacere al suo pubblico, e che artista è quello che condivide questa antipatia, e anzi la incoraggia?».

Se Lerner non può non dirsi d’accordo con il «Neanche a me piace» di Marianne Moore, che senso ha avuto dedicare alla poesia tanta parte della propria vita, insegnarla, comporla, e arrivare addirittura a farla irrompere nei suoi due romanzi, attraverso le voci dei protagonisti?
Odiare la poesia non è molto più che la spiegazione di questo paradosso. O, se non la spiegazione, il tentativo di sviscerarlo, ricorrendo a ogni arma possibile. Facendo appello alla stessa, scintillante intelligenza che chi ha letto Nel mondo a venire ha imparato a riconoscere come un vero marchio di fabbrica, Lerner attraversa l’intero corpus della lirica di lingua inglese, dedicando pagine meravigliose ad alcune delle sue più grandi voci, da Keats a Dickinson e Whitman, ma soffermandosi anche, a lungo e con esilarante serietà, sulla figura di William Topaz McGonagall, «il poeta scozzese dell’Ottocento che, stando a Wikipedia, è stato da più parti celebrato come il peggior poeta della storia».
Parla di Platone e del giudizio durissimo sui poeti contenuto nella Repubblica, di Sidney e della sua Difesa della poesia, ma dedica alcune tra le pagine più acute e divertenti del suo saggio a un intervento, pubblicato sul blog del New Yorker, nel quale – criticando la decisione di Barack Obama, che nel 2009 aveva annunciato di voler ripristinare la pratica di far leggere una poesia alla cerimonia di insediamento presidenziale – George Packer sottolineava come da molti decenni la poesia, negli Stati Uniti, fosse diventata «un’attività privata, scritta da pochi e letta da pochi», priva, dunque, della «lingua, il ritmo, l’emozione e la forza di pensiero capaci di galvanizzare un gran numero di persone nelle grandi occasioni pubbliche».

Spaziando tra alti esercizi di critica letteraria e riflessioni a ruota libera, Lerner costruisce un ritratto del poeta tout court, che sia un maestro o il peggior versificatore della storia, come figura tragica. La poesia, in fin dei conti, «è sempre la testimonianza di un fallimento»; o per citare il grande critico americano Allen Grossman, morto nel 2014 e al quale Lerner rende un omaggio commosso nelle pagine finali del suo saggio, la testimonianza di un conflitto irrisolvibile fra il desiderio, da parte del poeta, di cantare un mondo alternativo e «la resistenza alla creazione dell’alternativa, insita nei materiali di cui è necessariamente composto qualunque mondo».

Un contrasto, questo tra il sogno di un mondo alternativo e risolto in armonia e la resistenza sorda dei materiali e dell’imprevisto quotidiano, che Lerner ha cominciato a esplorare fin dalle pagine del suo primo romanzo in cui il poeta e plagiario Adam Gordon si confrontava con la morte e con il dramma collettivo di un paese non suo, scoprendosi Uomo di passaggio. Un contrasto, dunque, nel quale risiede forse la natura più profonda della poetica di Lerner, e che fa di Odiare la poesia quanto di più vicino a un autoritratto sia dato trovare nella saggistica contemporanea.